Fatima Buttho: «Nel mio Pakistan le donne sono guerriere»
di Arianna Boria
Fatima Bhutto, 31 anni: affascinante, cosmopolita, un’educazione prestigiosa tra New York e Londra. E un cognome pesante da portare, in cui è scritta la storia di un intero paese, il Pakistan.
I Bhutto sono come i Kennedy per l’America, i Gandhi in India: una dinastia politica e un destino macchiato di sangue. Suo nonno Zulfikar Ali Bhutto, presidente e primo civile a capo del governo, sua zia Benazir, per due volte premier, suo padre Murtaza, parlamentare, suo zio Shahnawaz, fratello minore di Benazir, sono stati tutti uccisi. Lei, Fatima (nella foto di Amean J), una laurea alla Columbia di New York e una specializzazione alla Scuola di studi orientali e africani all’Università di Londra, non fa politica, ma guarda al futuro della sua terra con la stessa determinazione degli altri Buttho, anche se con armi diverse. Poetessa e scrittrice, da Karachi, dove vive, ha raccontato la storia della famiglia in quello che è diventato un bestseller in Pakistan, “Canzoni di sangue”, tradotto in tutto il mondo, (in Italia è uscito per Garzanti). Oggi debutta col primo romanzo, “L’ombra della luna crescente” (edizioni Cavallo di ferro, pagg. 260, euro 16,50), una storia intrisa di affetti, di dolore, di morte ambientata a Mir Ali, città del North Waziristan, al confine con l’Afghanistan. In questa regione semi-autonoma è altissima la tensione tra gli indipendentisti e il governo centrale, e i talebani impongono coi kalashnikov il barbaro Islam di stampo sunnita sugli “eretici” sciiti. Qui, dove la delazione contro i ribelli è incoraggiata dai militari con la ricompensa di un visto per l’Occidente, Fatima ci introduce nella casa e nella giornata di tre fratelli.
È un venerdì dell’Eid, la festa che conclude il Ramadan, ciascuno deve pregare in una moschea diversa, perchè un attentato potrebbe sterminare l’intera famiglia: Aman Erum, ha studiato in America e là spera di tornare, costi quel che costi; Sikandar, medico, ha perso l’unico figlio in un attentato nell’ospedale in cui lavora; Hayat, il più piccolo, è un universitario dalle idee radicali, impegnato nella lotta contro il giogo dell’esercito. Accanto a loro, due donne: Mira, moglie di Sikandar, straziata dal dolore per il suo piccolo ucciso, e Samarra, militante rivoluzionaria, che nasconde nel cuore un amore perduto. Nell’arco di poche ore ciascun personaggio incontrerà il suo destino, ma saranno le due donne a determinarlo, ribellandosi, in un modo diverso, a una condizione solo in superficie già scritta. Così ne parla Fatima Bhutto, in Europa per presentare il libro.
. Che cosa l'ha spinta a scrivere un romanzo?
«Sento che è importante guardare al Pakistan dalla prospettiva dell'immaginazione, integra rispetto al filtro della geopolitica, che considera solo le guerre al posto delle persone. Volevo scrivere delle donne e della loro forza, che è enorme, specialmente in questi posti di conflitto».
E le ha rese il volto del nuovo Pakistan...
«È vero. Il loro potere si evidenzia man mano che la storia procede. Le donne non soltanto subiscono gli effetti della crudeltà della guerra, ma sanno resistere e riescono a farlo nel nome della non violenza e della solidarietà. Sono il cuore della vicenda».
Com'è una giornata, nella vita di una donna, nel suo paese?
«Dipende da dove sei, e purtroppo, dipende anche da chi sei. Ma quel che è universale, è che le donne in Pakistan non hanno tutela davanti alla legge. Ci sono molte normative barbare ancora in vigore che approvano e condonano la violenza contro di loro».
Può descriverla?
«È la soppressione delle loro voci, un abuso mostruoso perpetrato nei confronti di un essere umano. Quella di non poter essere in disaccordo, di non poter farsi sentire contro la maggioranza, o contro il potere, è una forma di oppressione che si manifesta non solo in Pakistan, ma in tutto il mondo. L'impossibilità di avere un ruolo in campo sociale, economico o politico che sia, è un genere di violenza verso la donna che oggi riscontriamo praticamente ovunque».
Lei combatte con forza il clichè della sottomissione femminile...
«Non ho mai incontrato una donna debole né in Pakistan né in altri paesi dell'Asia. Si tratta di uno stereotipo, confezionato dai mezzi di informazione occidentali. Queste donne sono autentiche combattenti. Per sopravvivere in paesi martoriati dalle guerre, devi essere per forza tale. E le donne stanno sul campo anche loro, ma con un profondo senso di radicamento, di solidarietà e di non violenza».
Come descriverebbe il romanzo?
«Il mio è un libro sul tradimento e su quanto noi stessi dobbiamo tradire per sopravvivere nel mondo moderno».
Si riconosce di più in Samarra o in Mina?
«Solidarizzo con entrambe. Capisco la rabbia di Samarra, ma anche il dolore di Mina e il suo bisogno di trovare risposte, di cercare giustizia in qualunque modo lei la intenda».
La giovane Malala, che ha pagato per poter studiare, è diventata un simbolo in tutto il mondo...
«Malala ha infranto molte barriere, di età, di genere, di classe. È quell'esempio di voce nuova di cui abbiamo bisogno in Pakistan e certamente ha dimostrato un grande coraggio».
Lei appartiene a una famiglia molto importante. In che modo la sua giovinezza e la sua educazione sono state diverse?
«La mia giovinezza è stata marchiata dall'esilio. Ho visto molti membri della mia famiglia assassinati e uccisi e ho conosciuto la violenza da vicino. Ma è stata anche una giovinezza piena di amore e di calore e mio padre ha fatto in modo che crescessi non con un senso di presunzione, ma di solidarietà. Dal punto di vista della mia educazione sono sempre stata molto fortunata perchè ho studiato in giro per il mondo e ho avuto grande liberà di esplorare nuove idee. Ma non sono sicura di essere stata più indipendente. La violenza e il pericolo costante ti fanno rinchiudere in te stesso. Noi eravamo molto vicini gli uni agli altri, perchè volevamo proteggerci a vicenda».
Com'è la sua vita oggi a Karachi?
«A volte è normale: vedo gli amici, lavoro, ho impegni quotidiani. Altre volte è “anormale”, perchè anch'io devo considerare questioni come la sicurezza e la situazione politica, che è sempre mutevole e potenzialmente esplosiva. Non so bene come descrivere la mia vita, ma mi sento molto fortunata ad avere un campo di osservazione così vasto e a essere parte di una città che ha una vitalità e un'energia tremende a dispetto dei suoi problemi».
Che cosa si augura per il suo paese?
«Auguro al Pakistan di saper includere molte più voci e spero che riesca a raggiungere l'armonia tra la sua gente e ai suoi confini. Alle donne auguro la libertà».
È stato doloroso scrivere un libro in cui si mescolano politica e privato?
«È stato emozionante e mi sono sentita molto protettiva nei confronti dei miei personaggi».
Sta lavorando a un'altra storia?
«Al momento viaggio per presentare il libro, ma spero di farlo molto presto».
@boria_a
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