Fabbriche chiuse, in Fvg industriali divisi sulla stretta

Sergio Razeto (Trieste): la salute prima di tutto. Mareschi Danieli (Udine): misure inadeguate alla gravità della situazione 
Sergio Razeto, leader degli industriali triestini, con il presidente uscente di Confindustria, Vincenzo Bocci
Sergio Razeto, leader degli industriali triestini, con il presidente uscente di Confindustria, Vincenzo Bocci

UDINE Chiudere le fabbriche fino al 3 aprile è provvedimento giusto, perfino tardivo nelle zone più contagiate d’Italia, commenta Michelangelo Agrusti, presidente di Confindustria Alto Adriatico. La pensa così anche Sergio Razeto, presidente degli industriali triestini: «Sono spaventato da ciò che potrà succedere dal punto di vista economico, ma la salute viene prima di tutto». I colleghi friulani paiono invece molto più perplessi. «Il decreto Cura Italià è insufficiente. Per quanto ci riguarda è decisamente troppo poco. C'è poco o nulla di quanto Confindustria ha chiesto e di quanto servirebbe. Siamo consapevoli che la situazione è difficile e apprezziamo comunque un primo segnale, ma ora servono misure eccezionali. Queste sono sicuramente inadeguate alla gravità della situazione. Non entro nemmeno nel merito dei singoli provvedimenti, mi limito a sottolineare il surreale slittamento di 4 giorni del termine per i versamenti alla pubblica amministrazione. Com’è possibile che questo inasprimento delle regole avvenga esattamente 24 ore dopo il termine ultimo del pagamento degli F24?», tuona Anna Mareschi Danieli, presidente di Confindustria Udine.



A unire gli industriali, come gli artigiani, è però la contestazione sul mancato preavviso alle imprese. Per Agrusti sarebbe servita almeno una settimana, non i tre giorni che il Dpcm lascia alle attività produttive cui viene imposta la chiusura, per completare le attività necessarie alla sospensione, compresa la spedizione della merce in giacenza. Problema denunciato dalle categorie economiche, spiazzate dai mancati chiarimenti su perimetro del provvedimento e modalità d’applicazione.

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«Confusione totale» per Stefano Adami, capo categoria autotrasportatori Confartigianato Fvg. Le associazioni di categoria hanno cercato di capire cosa intendesse il premier Conte nella diretta Facebook di sabato a tarda ora per «attività produttive non cruciali», chiuse tentando di alzare un’altra barricata anti-Covid-19. L’hanno scoperto solo ieri sera, scorrendo l’elenco dei codici Ateco di chi potrà continuare a lavorare anche dopo mercoledì 25. Un’acciaieria come Danieli (che nella consociata Danieli Automation ha già avviato le operazioni di sanificazione dopo il test positivo di un dipendente) non rientra ad esempio tra le eccezioni. Mentre un’azienda come Faber, con decine di migliaia di bombole di ossigeno in consegna, rimarrà aperta. «Dedicheremo ogni sforzo per far fronte alle disperate richieste di supporto della filiera», fa sapere l’ufficio stampa del gruppo cividalese.

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A Trieste, con Flex e Nidec pronte a fermarsi, la Ferriera (la «fabbricazione di coke» rientra nell’elenco di chi può ancora produrre) parrebbe intenzionata a tener duro, col sindacato già sul piede di guerra. «In questa fase le uniche fabbriche aperte dovranno essere quelle delle filiere sanitaria, agroalimentare e della cura della persona», dice Michele Piga, segretario generale della Cgil triestina. A fare chiarezza, oggi, una videoconferenza col prefetto Valerio Valenti, in cui si detteranno gli effetti sul territorio regionale del Dpcm.

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A sentire Michelangelo Agrusti la strada è corretta: «Sono da sempre dell’idea che le fabbriche vanno tenute chiuse il più possibile – dice - altrimenti le chiude il virus. Se si è vietato di andare a messa e al cimitero, a scuola e università, pareva un controsenso dire alla gente di presentarsi spensieratamente al lavoro». «Decisione forte, terribile, ma necessaria e dunque la rispettiamo – le parole di Razeto –. Ma non ci si dovrà dimenticare di imprese che devono ripartire quanto prima possibile». Insiste Mareschi Danieli: «Lo Stato sta affrontando questa situazione come una crisi ordinaria. Ma oggi, di ordinario, non c’è nulla».—


 

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