Est e Balcani nel 1989: così la Cia lavorava per scoprire le crepe aperte nel Muro

Dal crollo imprevisto di Ceausescu alle intuizioni sugli scenari in ex Jugoslavia: i rapporti degli agenti Usa ora desecretati
epa06395935 (FILE) - The seal in the lobby at the CIA headquarters in Langley, Virginia, USA, 14 August 2008 (issued 17 December 2017). According to the Kremlin, Russian President Vladimir Putin called US President Donald J. Trump to thank him for a tip provided by the CIA that thwarted a terrorist attack that targeted the Kazan Cathedral in St. Petersburg, Russia. EPA/DENNIS BRACK - POOL
epa06395935 (FILE) - The seal in the lobby at the CIA headquarters in Langley, Virginia, USA, 14 August 2008 (issued 17 December 2017). According to the Kremlin, Russian President Vladimir Putin called US President Donald J. Trump to thank him for a tip provided by the CIA that thwarted a terrorist attack that targeted the Kazan Cathedral in St. Petersburg, Russia. EPA/DENNIS BRACK - POOL

BERLINO In quell’autunno irripetibile del 1989 il mondo, attaccato alla Tv, spiava sorpreso, con apprensione mista a speranza, quanto stava accadendo oltre il Muro in quell’Europa orientale per quarant’anni sotto il giogo del socialismo reale. Cosa sarebbe accaduto da lì a poco? Non tanti, fra i comuni osservatori seduti nei tinelli di casa, avrebbero potuto immaginare il rapidissimo evolversi della situazione nella regione.

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Ma fior di analisti, agenti segreti ed esperti erano contemporaneamente al lavoro, in quei giorni, per cercare di dare risposte precise sull’Est e sull’allora Jugoslavia. Risposte – quelle della Central Intelligence Agency (Cia) americana, riservate alla sola attenzione del presidente Usa e del suo entourage –: risposte che ora, trent’anni dopo il 1989, sono accessibili a tutti. Lo ha deciso la stessa Cia che ha pubblicato sulla sua “Electroning Reading Room”, la biblioteca online dell’agenzia, un’ampia collezione di «articoli della National Intelligence Daily», documenti finora «top secret», risalenti al periodo tra febbraio 1989 e marzo 1990, è stato spiegato dal quartier generale di Langley. Articoli, a decine, che una volta desecretati rappresentano una miniera preziosa per capire un po’ di più di quanto accadde trent’anni fa a Est e in Jugoslavia.

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L’Est occupa la maggior parte dell’archivio ormai non più segreto, con tantissimi rapporti che parlano della Germania Est, Ddr che in quegli ultimi mesi di vista festeggiava «un problematico 40.o compleanno», tra «proteste di piazza» e «crisi» economica. Ma ci sono pagine e pagine anche sulla Cecoslovacchia e le «crepe nella facciata monolitica del regime». Lo stesso vale per l’Ungheria, dove il riconoscimento del «diritto di sciopero» già a marzo 1989 venne letto dagli Usa come un passo troppo spinto che avrebbe potuto affossare la leadership al potere. Leadership che risultava traballante da tempo anche in Polonia, come segnalavano concessioni che si sarebbero rivelate controproducenti per il regime, quali il «riconoscimento della Chiesa cattolica» a maggio, «un segnale di disperazione» del potere, assetato di «sostegno popolare».

Gli occhi di Washington erano puntati anche sulla Bulgaria, paese di difficile interpretazione per gli Usa. E – oltre che sui Baltici - sulla Romania di Ceausescu, «l’ultimo baluardo del blocco» socialista che cercava di isolarsi dal terremoto a Est arroccandosi «sull’ortodossia», ma ci riuscì solo fino a dicembre, quando il dittatore rovinò miseramente nella polvere assieme alla moglie Elena–– un crollo che gli analisti della Cia non erano riusciti a prevedere, tantomeno a immaginare neppure a novembre 1989, un mese prima la fucilazione di Ceausescu.

Gli agenti di Washington che, in quel turbinio di eventi, erano stati però ben più profetici su quanto sarebbe avvenuto nel giro di due anni in Jugoslavia. Per loro a fine ’89 era ormai chiaro che «il consenso politico del dopoguerra tra i gruppi etnici si sta rompendo», tra crisi e pulsioni nazionalistiche. Sono elementi che «mineranno le riforme politiche ed economiche che sarebbero necessarie», avevano giustamente previsto gli analisti Cia. Leader nazionalistici in ascesa, Milosević in testa, probabilmente «riusciranno ad andare avanti ancora per almeno un anno, ma dopo di ciò il panorama è fosco», avevano aggiunto raccontando di nuovi partiti in fasce, pronti a sventolare le bandiere del «nazionalismo e persino della secessione», non tanto quella della democrazia, mentre la gente, anche in Slovenia, «vuole solo più autonomia, non la separazione». Erano parole premonitrici, messe nero su bianco – per gli occhi di pochi eletti - mentre l’Est andava verso la democrazia e Belgrado precipitava in quei mesi verso la guerra civile. —


 

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