Le città nascoste dell’Esodo istriano: volti e documenti in mostra a Muggia

Inaugurato l’allestimento al museo Carà che ripercorre la genesi dei campi profughi tra testimonianze e cartografie

Francesco Bercic
La folla all’inaugurazione della mostra Foto Andrea Lasorte
La folla all’inaugurazione della mostra Foto Andrea Lasorte

Piazza Libertà, 23 gennaio 1956. «Siamo circa 1.500 persone che abitano il Silos di piazza Libertà numero 9. Siamo come una barca senza timone in un mare burrascoso, in balia dei marosi e dei venti. Ci siamo riuniti in un comitato formato da una decina di persone... La nostra preghiera sale a Lei per invocare il suo aiuto e donarci questa sospirata televisione (quest’ultima parola è scritta in stampatello maiuscolo, ndr)». Segue un elenco di dodici firme vergate in diversi colori.

Passa da testimonianze come questa il racconto difficile e necessario dell’Esodo giuliano-dalmata, un frammento del quale è adesso esposto nella mostra appena inaugurata al museo Carà di Muggia (“Città nascoste. Atlante dei campi profughi di Trieste 1947-1975”). Passa cioè dalla forza dei documenti dell’epoca, che restituiscono nella loro disarmante semplicità una delle pagine più complesse del Novecento triestino.

La lettera di cui sopra è indirizzata al prefetto, Giovanni Palamara, che di lì a poco sarebbe diventato commissario del Governo per il territorio di Trieste. Il comitato ne loda «l’infinita bontà, lo spirito di comprensione e di solidarietà quanto mai fraterna verso noi poveri esuli», per concludere con l’auspicio di aiutare «le persone vecchie e ammalate che abitano nello stabile che potranno così trascorrere un’ora serena accanto alla televisione».

Il Silos è uno dei cosiddetti “alloggi alveare”, la prima soluzione sperimentata per accogliere i nuclei familiari stipandoli al limite del possibile. La mostra “Città nascoste” ricostruisce i contorni di questi e altri agglomerati, di dimensioni varie e di genesi altrettanto diverse, una parte dei quali presi in carico dalle autorità con i Centri raccolta profughi. Il curatore dell’esposizione, Francesco Fait, motiva allora il senso del titolo: «Sono città a tutti gli effetti, dotate dei loro servizi e spesso, come nel caso di Padriciano, di grandi dimensioni. Ma sono anche nascoste, perché i triestini e gli stessi esuli tendono a occultare la loro esistenza».

Eppure, da soli, i documenti non bastano. Così la chiave di lettura scelta da Fait per la mostra al Carà li mescola a stralci di interviste, raccolti nella terza e più affollata sezione, chiamata “Rotte”. Nel corso dell’inaugurazione, avvenuta nel tardo pomeriggio di ieri, è questo l’angolo dove si concentra la maggioranza dei visitatori, alcuni dei quali forse si ritrovano in quelle parole dure e commosse. Scrive Elsa Fonda: «Ero innamoratissima di Pirano, a cui ero attaccata in una maniera... Del corpo, addirittura... La gente non ha avuto la possibilità di partecipare al destino della sua terra, ha solo subito».

Ci sono poi i filmati dell’Istituto Luce, uno spazio dedicato alle “colonie” agricole abitate dai contadini istriani, ma soprattutto uno stile sobrio e analitico che colpisce chiunque. La mostra è in realtà l’atto intermedio di un progetto più ampio, che si concluderà con la pubblicazione di un volume. Si può visitare, a ingresso libero, da giovedì a domenica in orario 10-12 e 17-19 (per i festivi è escluso il pomeriggio). Oltre all’Archivio di Stato, hanno contribuito a realizzarla l’associazione Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), il Centro di documentazione della cultura giuliana istriana fiumana e dalmata (Cdm) e Federesuli. —

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