Enrique Irazoqui, il Gesù di Pasolini

Per la prima volta a Casarsa l’attore spagnolo che nel 1963 ha interpreato Cristo nel film “Il Vangelo secondo Matteo”
Di Roberto Carnero

Il Gesù di Pasolini arriva per la prima volta in Friuli. L’attore spagnolo Enrique Irazoqui – che nel 1963, all’età di 19 anni, ricoprì il ruolo di Cristo nel film “Il Vangelo secondo Matteo” – non era mai stato nei luoghi pasoliniani. Irazoqui nel corso degli anni si è sempre sottratto alle commemorazioni. Questa volta, però, ha accettato l’invito di Angela Felice, direttrice del Centro Studi Pasolini di Casarsa. Anche per fare una cosa a cui da molto tempo pensavo - confessa - andare sulla tomba di Pier Paolo».

L’occasione è stata la presentazione di un documentario di Valeria Patané, dal titolo “Album”, girato l’anno scorso a Cadaqués, il piccolo centro sulla Costa Brava dove ora Irazoqui abita con la moglie. La regista ha filmato l’incontro, mezzo secolo dopo, tra Enrique e Giacomo Morante (nipote della scrittrice Elsa), che nel 1963, all’età di 15 anni, ebbe nel film la parte dell’apostolo Giovanni.

Irazoqui, che cosa ha significato per lei quell’esperienza di lavoro con Pasolini?

«Qualcosa di eccezionale. Non conoscevo l’opera di Pasolini, ma avevo sentito parlare di lui come scrittore marxista. L’anno prima ero stato in carcere in Spagna a causa della mia militanza antifranchista. Ero giunto in Italia clandestinamente per chiedere a intellettuali come Pasolini, Moravia, la Morante di sostenere la causa dell’opposizione al regime franchista attraverso un loro impegno diretto, dandoci la disponibilità a venire in Spagna, nelle università, a tenere delle conferenze».

E poi cosa è successo?

«Quando Pasolini mi vide, pensò subito di avere finalmente trovato il volto che cercava da mesi, quello di Gesù. Me lo disse Ninetto Davoli qualche tempo dopo, sul set del film: “Enrique, ti ricordi che durante il tuo primo colloquio con Pier Paolo a un certo punto lui ti ha lasciato solo? Era corso nell’altra stanza a telefonarmi, felice come un bambino per aver individuato in te il Cristo di cui aveva bisogno”».

Come ricorda i mesi delle riprese?

«Come un periodo in cui ero continuamente esposto a mille stimoli culturali. Ciò grazie alle fitte conversazioni con Pasolini, ma, debbo dire, ancora più con Elsa Morante, che fu una presenza costante per i quattro mesi che durarono le riprese. Discutevamo molto, ovviamente di politica. Elsa era anarchica, Pier Paolo comunista, come me. Ma mentre Elsa e Pier Paolo spesso polemizzavano aspramente tra loro, con me avevano molta pazienza, forse per la mia giovane età. Per me sono ricordi indelebili, di una intensità vivissima».

Che cosa ha fatto dopo nella vita?

«Mi sono laureato in Economia e poi ho anche lavorato in questo campo per cinque mesi, ma la sera tornavo a casa psicologicamente distrutto e dovevo riprendermi con la lettura di Kafka e dei surrealisti. Per questo successivamente ho preso una seconda laurea in letteratura spagnola e ho poi insegnato questa materia in diverse università degli Stati Uniti».

Qualche rimpianto?

«Pasolini voleva girare un film a partire da un suo testo, intitolato Il padre selvaggio, ma solo a condizione di avermi come attore protagonista. Io allora, però, non volevo fare cinema. Mi interessava solo la rivoluzione».

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