Ecco i 1.600 metri cubi di storiche masserizie allestite al Magazzino 26 per ricordare l’Esodo
Martedì 28 settembre l’assessore Rossi e i vertici dell’Irci presentano il lavoro svolto in quattro mesi per realizzare il nuovo museo nell’antico scalo
TRIESTE Quattro mesi di lavoro per trovare la sintesi tra i 1.600 metri cubi delle masserizie accatastate nel Magazzino 18, mitico ma fradicio, e i pezzi conservati in via Torino.
Nonostante l’esiguità del tempo e il non abbondare delle risorse (80.000 euro comunali per i traslocatori della Fast), il nuovo museo dell’Esodo comincia a delineare una sua chiara fisionomia nei 2.000 metri quadrati che si allargano al secondo piano del Magazzino 26, la grande matrioska onnicapiente della cultura in Porto vecchio. Se ne parlerà questa mattina, martedì 28 settembre, a mezzogiorno alla presenza dell’assessore Giorgio Rossi.
In primo piano l’Irci, l’istituto che gestisce l’operazione: il presidente Franco Degrassi e il direttore Piero Delbello spiegano la sequenza degli spazi. Al momento sono stati guarniti tre stanze e due corridoi, mentre mancherà ancora per un po’ la stanza dedicata ai reperti archeologici, bisognosi di essere tutelati da specifici accorgimenti tecnologici.
Dei quali invece non necessita l’umile falange di mobili, forchette, bicchieri, macchine da cucire, sedie schierata sopra il pavimento al grezzo e avvolta dalle pareti in pietra. Un colpo d’occhio sobrio, che non stona nel rimarcare l’originaria missione emporiale dell’edificio e l’attuale, mesto contenuto.
Si giunge a destinazione accolti da un corredo di riproduzioni fotografiche che ricordano l’Istria di una volta. Poi l’approdo museale vero e proprio: ecco la stanza “2”, dove si biforca la struttura museale, nel senso che termina l’esposizione proveniente da via Torino e origina l’impressionante sfilata delle rimembranze domestiche provenienti dalla terra perduta.
Da via Torino, dove l’Irci manterrà il centro studi con la biblioteca, sono affluiti i reperti che documentano la vita rurale e quella legata al mare. Scorrono gli arnesi da lavoro, le botti e gli strumenti per vinificare, i rudimentali mezzi di trasporto, un angolo raccoglie le reminiscenze della pesca e delle saline.
In fondo la stanza “2” sterza - come si diceva - verso il grande capitolo della masserizia. Lo fa con gradualità, attraversando gli stipi della farmacia capodistriana Marcolini e di una privativa situata ad Abbazia. La giovane neo-assunta Giovanna Penna, fresca laureata in gestione del turismo culturale nell’Università di Udine, è intenta al paziente e inesauribile riordino dei piccoli oggetti che raccontano una quotidianità smarrita.
Le masserizie sono state organizzate - spiega Delbello - secondo uno schema tipologico, favorito dall’ampiezza dei locali. Cosicché la “2” accoglie cassoni, valigie, ceste utilizzati per traslocare gli effetti personali durante l’Esodo. Sono state inoltre allestite una camera da letto e una cucina.
Un corridoio collega la “2” alla “3”: ma non è una semplice congiunzione, perché ospita una parete di foto senza nomi, fronteggiata da attrezzi da lavoro e da vari scaffali abitati da piatti, bicchieri, terrine, tazze e tazzine.
E si passa alla stanza “3” nella quale sfilano centinaia di mobili. Introdotti da un pianoforte berlinese Hoffmann e da una linotype viennese datata 1900. Subito risaltano i letti smontati e accompagnati dal nome del proprietario: un cartellino informa che uno dei giacigli apparteneva a Ulcigrai Maria. Altri manufatti lignei recano la mittenza delle famiglie Garboni, Degrassi, Vascotto, Ratissa, Giraldi... E ci sono anche i “colli spersi”, cioè quelli di cui non si sa chi li abbia mandati. Si raggiunge così la stanza “4” connotata dai mobili da cucina, dalle credenze agli “spargher” e alle fornasette.
Colpisce l’enorme siepe composta da migliaia di sedie legate tra loro. Lì vicino le macchine da cucire. Corridoio finale a forma di memoriale, su una parete circa duecento nomi che iniziano con Norma Cossetto e finiscono con don Francesco Bonifacio. Nomi che si riflettono su una selva di specchi dirimpettai.
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