E la gente spazzò via il Muro di Gorizia per un giorno nel 1950
TRIESTE. Esce in libreria “La domenica delle scope” dello scrittore e giornalista del “Piccolo” Roberto Covaz (foto), edito dalla Leg (pagg. 101, euro 14,00), che sarà presentato il 20 maggio nell'ambito del festival èStoria, alle 10.30, nella Tenda Apih, in un incontro con l'autore e i giornalisti Giulio Giustiniani e Giorgio Del'Arti. Il libro - che ha per sottotitolo “... e altre storie di confine” - racconta come a ridosso dell’impenetrabile confine tra Gorizia e la neonata Nova Gorica, domenica 13 agosto 1950, accade un evento straordinario. A migliaia, i goriziani rimasti in Jugoslavia dopo il 17 settembre 1947 superarono il confine per tornare ad abbracciare amici, parenti e fidanzate. Fu una giornata di festa interminabile, vissuta all’insegna dell’eccesso e degli acquisti da parte degli jugoslavi. Gli empori furono letteralmente svuotati perché al di là della frontiera, in una Nova Gorica ancora in fase di costruzione e nei paesi limitrofi, c’era poco o nulla da comprare. Nemmeno una semplice scopa di saggina, l’articolo che più di tutti verrà acquistato fino a divenire il simbolo di quel memorabile giorno a Gorizia.
Anticipiamo un brano dell’introduzione al libro di Roberto Covaz.
Domenica 13 agosto 1950 a ridosso dell’impenetrabile confine tra Gorizia e la neonata Nova Gorica accade un evento straordinario. A migliaia, i goriziani rimasti in Jugoslavia dopo il 17 settembre 1947 abbattono il confine per tornare ad abbracciare amici, parenti e fidanzate, incuranti dei fucili dei soldati jugoslavi, i graniciari, implacabili controllori della frontiera tra l’Occidente democratico e la repubblica di Tito, avamposto dell’Est europeo. Durante la loro permanenza a Gorizia, gli jugoslavi si disperdono nei caffé cittadini, nelle osterie e nei negozi, rimasti aperti vista l’imminenza del Ferragosto. È una giornata di festa, di acquisti, di eccessi. Gli empori vengono letteralmente vuotati perché al di là della frontiera, in una Nova Gorica ancora in fase di costruzione e nei paesi limitrofi, non ci sono botteghe e c’è poco o nulla da comprare. Nemmeno una modesta e semplice scopa di saggina, l’articolo che più di tutti viene acquistato in quel memorabile giorno a Gorizia. In questo libro si narra di quella domenica, restituendo la Gorizia più autentica di una interminabile giornata dell’agosto del 1950 attraverso vicende, personaggi e curiosità capaci di riflettere il fascino e la complessità storica di questa intrigante città. L’“appuntamento” era stato fissato per domenica 6 agosto. L’avevano deciso le autorità italiane e jugoslave. Altri “appuntamenti”, clandestini però, c’erano stati nei giorni precedenti ma i partecipanti, in quelle occasioni, avevano corso il rischio di prendersi in mezzo alla fronte una pallottola sparata dai graniciari, i militari jugoslavi che sorvegliavano la frontiera. Non pareva vero a tanti goriziani di potersi avvicinare, senza correre rischi, al reticolato e ai cavalli di frisia posti al confine tra Gorizia e Nova Gorica, ovvero tra l’Occidente democratico e la Jugoslavia, avamposto del socialismo reale. Non un semplice confine, ma un baratro di cui non si vedeva la fine. La cortina di ferro era stato battezzato. Anche Gregorio aveva sentito parlare dell’“appuntamento”. Del resto non si parlava d’altro in quei giorni. I suoi alunni erano tutti eccitati dalla prospettiva di poter incontrare quella domenica i nonni, gli zii, i cuginetti e gli amici rimasti dall’altra parte del confine. Gregorio era un maestro elementare e insegnava a Savogna. In quell’agosto del 1950 aveva organizzato una sorta di colonia. Aveva chiamato a raccolta i suoi ragazzi che volentieri trascorrevano l’estate accanto al loro maestro, buono e dallo sguardo immalinconito. A trent’anni suonati, Gregorio non era sposato, non aveva figli e nemmeno la fidanzata. O, meglio, la fidanzata ce l’aveva, ma pure quella era rimasta di là. Il maestro, sei anni prima, era giunto a Gorizia dalla sua terra d’origine, l’Abruzzo. Che il regime fascista declinava al plurale, gli Abruzzi, per la solita mania di grandezza imperiale. Forse per lo stesso motivo le regioni del Nordest venivano indicate come Venezia Euganea, Venezia Tridentina e Venezia Giulia. Slogan più che nomi. Proprio nella Venezia Giulia il neo-maestro aveva trovato lavoro. Il regime agevolava l’invio di insegnanti da tutte le parti d’Italia in queste terre di confine. Meglio se provenivano dal Meridione. Il loro compito era di italianizzarle, come si diceva allora. Semplicemente, si voleva cancellare ogni elemento non italiano. Così, decine e decine di maestri avevano trovato una cattedra nei paesi della valle del Vipacco, nell’alta valle dell’Isonzo, territori allora in provincia di Gorizia e dove la componente slovena, e di conseguenza la lingua, era maggioritaria da sempre. Senza costituire una minaccia per nessuno. Anzi, era un arricchimento la commistione di tante culture e tradizioni: l’italiana, la slovena, la tedesca e la friulana. L’impero austro-ungarico l’aveva ben compreso e aveva governato a lungo e senza tanti problemi. I maestri italiani, come li avevano astiosamente battezzati le popolazioni slovene, erano stati incentivati ad accettare destinazioni lontane con l’attribuzione gratuita da parte dello Stato di un anno di contribuzione ogni cinque effettivamente svolti. Sarebbero andati in pensione molto prima degli altri colleghi. Quando giunse a destinazione, il maestrino Gregorio ignorava ovviamente dove si trovasse esattamente Savogna. Era il settembre del 1944 e, nonostante il tepore estivo, aveva avvertito un’accoglienza molto fredda. C’era la guerra e, come non bastasse quella già immane tragedia, italiani e sloveni del Goriziano si erano incamminati lungo la strada dell’inimicizia che avrebbe causato, nel dopoguerra, più lacerazioni e lutti che non nel periodo bellico.
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