E dal quaderno degli appunti all’improvviso scivolò fuori una vecchia polaroid del ’75

Silvio vide Katherine per la prima volta alla fermata del bus numero 9 davanti alla Stazione Rogers aveva un’ampia gonna etnica e quando si girò vide che era di una bellezza così semplice da sembrare perfetta

Era un impiegato di banca, a quarant'anni, non aveva fatto neanche un po' di carriera. Il tipo che in Germania avrebbero chiamato “eine graue Maus”, anonimo travèt, ma a Trieste era già tanto se i colleghi lo chiamavano per nome: Silvio. Non che la cosa lo infastidisse più di tanto. Era riuscito a ritagliarsi un incarico che sembrava pensato espressamente per lui nell'archivio della sede principale di quell'istituto di credito che ogni mese gli pagava uno stipendio che veniva speso in buona percentuale in libreria. Nelle viscere di quell'edificio neoclassico, nei labirinti tra l'archivio e i caveau, Silvio trovava modo di sparire, ovvero di mettersi a leggere, così la sua mente era spesso altrove.

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Era un lettore vorace, ma molto selettivo, tanto che aveva sviluppato un rispetto sacro per la parola scritta. Alto, magro, vestiva con eleganza discreta, aveva la pelle bianchissima e il viso era incorniciato da una folta chioma di capelli castani ricci che stavano appena iniziando a imbiancarsi sulle tempie. Gli occhi verdi brillavano dal fondo di profonde occhiaie. Quando usciva li proteggeva sempre con un paio di occhiali da sole, anche nelle giornate di pioggia. Abitava all'inizio di Via Belpoggio, in un grande appartamento che era appartenuto ai genitori, entrambi psichiatri, scomparsi in un incidente aereo proprio quando aveva deciso d'andare a vivere da solo e alla fine era rimasto a vivere lì. La mattina era in ritardo, sempre.

In vent'anni non era mai arrivato puntuale in ufficio, tanto che - anziché fare il tragitto a piedi - finiva sempre per prendere la 9 alla fermata accanto alla Stazione Rogers. La vide lì, la prima volta, una mattina di fine agosto, estate 2016. Stava seduta sulla panchina, forse ad aspettare anche lei l'autobus. Aveva una ampia gonna etnica, ricchissima di ricami, inserti colorati e perfino piccoli cerchi di specchio, che a seconda di come si muoveva riflettevano la luce del sole. La camicia doveva essere stata ricavata da alcuni foulard di seta ed era casual e elegante al tempo stesso.

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Calzava sandali di cuoio artigianale con un'alta zeppa. In un primo momento quasi non riuscì a vederle il viso perché nascosto da una cascata di capelli castani e da una folta frangetta. Poi, quando lei si girò - come per controllare se stesse per arrivare il bus - vide ch'era d'una bellezza così semplice da apparirgli perfetta. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo e Silvio ebbe l'impressione di vedere, assieme a un accenno di sorriso, disegnarsi sulle guance di lei l'ombra di due fossette.

La ragazza avrà avuto al massimo trent'anni. Dai finestrini della 9 lui fece poi ancora in tempo a vedere che teneva in mano un quaderno.

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Silvio quel giorno, in archivio, combinò poco e niente, anzi a momenti rischiò di fare un disastro riponendo un documento importante in una cassettiera sbagliata dove non sarebbe stato mai più ritrovato. Aveva sempre in mente il momento in cui la ragazza aveva alzato lo sguardo e lui l'aveva vista, un po' persa nei suoi pensieri, bella. Tornato a casa, dopo aver cenato qualcosa ascoltando Radio3, s'era sprofondato nella lettura dei Detective Selvaggi di Roberto Bolaño e poi era andato a dormire. La mattina dopo la ragazza era di nuovo alla fermata del bus, sembrava quasi che lo stesse aspettando. Quando le passò accanto lei gli sfiorò il braccio e gli chiese: “Scusa, tu lavori forse alla Mediateca della Cappella Underground?” Silvio la guardò stupito e divertito. Magari!!! pensò tra se'. “Mi dispiace, no. Lavoro in banca”. “Ah- fece lei - mi sembrava di averti visto lì. Forse era qualcuno che ti somigliava”. “Forse, sì” le rispose Silvio che vide proprio in quel momento passar via la 9. Il ritardo cominciava a diventare imbarazzante anche per i suoi standard.

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E se fosse rimasto lì, con la ragazza, a parlare con lei, senza andare in banca? Si chiese. E senza sapere come si ritrovò a chiederle “Tu che fai oggi?” Lei, sgranando i suoi grandissimi occhi gli aveva risposto: “OGGI? Beh, niente”. “Allora passiamo la giornata insieme” fece lui. “E dove?”, “Qui è pieno di posti dove fermarsi a parlare, il Museo Sartorio, il Giardino di Piazza Hortis, il Bar Alla Motonave”. “Ok, andiamo alla Motonave”. “Faccio solo una telefonata”. Intanto lei s'era alzata dalla panchina e, forse perché alta o forse per le zeppe, sembrò per un attimo torreggiare accanto a Silvio. I capelli sembravano ora ancora più lunghi e quasi animati di vita propria. Indubbiamente, visti così, assieme, erano una bella coppia. “Sei sicuro che oggi non devi andare a lavorare?”, “No, tranquilla, ho avvertito”. Ora aveva però notato che il suo accento non era triestino, anzi forse la ragazza era straniera... arrotondava le erre, aspirava un po' le vocali...

Silvio era come ubriaco, stava facendo qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua. A quarant'anni marinava l'ufficio per andare in giro con una perfetta sconosciuta. Lui? Il famoso topo grigio!!! Con una che sembrava uscita fuori da un romanzo, o forse dai suoi sogni. Camminarono lungo il lato mare di Riva Grumula fino all'altezza dell'Acquario. Non dicevano niente, ogni tanto si guardavano e sorridevano, così, silenziosi, felici. Attraversarono le Rive e imboccarono Via S. Giorgio.

All'angolo con Via Diaz proprio in quel momento stavano alzando le serrande della Libreria In der Tat. “Vieni, guardiamo le vetrine!”, disse lei animandosi improvvisamente davanti ad alcuni titoli di Jean-Paul Sartre, “Un grande! Mi ricordo quell'intervista per il “Paese Sera” ai tempi della 'Primavera di Praga'”, “L'hai letta?” - chiese lui, aggiungendo - “In quale volume è stata pubblicata?”, “Non lo so, ma ora che ci penso dev'esser stato nello stesso periodo in cui uscì la versione cinematografica de Il muro”. “Il film di Serge Roullet?”, “Sì, lo presentarono al Festival di Venezia”, “Ah, l'hai visto nella Mediateca della Cappella Underground?”, ma lei era già interessata a un altro titolo in esposizione: “Accidenti! Hanno pubblicato il testo della conferenza di Grenoble sulla Parresia di Foucault, quella me la sono persa...”, “Se hai perso il libro è un buon motivo per compralo ora. Te ne posso fare omaggio?”, “No, grazie, sei molto gentile, quando certe cose si perdono, è per sempre...” rispose stringendo nervosa il suo quaderno Smolars. Si lasciarono alle spalle la libreria e raggiunsero i tavolini della Motonave, dove il proprietario diede a Silvio, cliente da sempre, un benvenuto stupito e mentre prendeva l'ordine - accennando alla ragazza - gli fece l'occhiolino. “Un cafe au lait, per me grazie” chiese lei, “E per me il solito capo in b”. La conversazione si dipanò rapida e fluida come solo può accadere tra due anime affini per gusti e sensibilità. Silvio le raccontò la sua vita, senza eventi, ma piena di storie, le disse del suo amore per il cinema e per il jazz. Le descrisse la grande casa che stava lentamente svuotando di tutti i ricordi dei genitori e lei lo guardò perplessa. Le confessò il suo isolamento in ufficio e la sua incapacità di trovare amici.

Lei annuiva, comprensiva. In alcuni momenti gli posava sul braccio addirittura la pallida mano piena di giganteschi anelli artigianali. Poi anche lei iniziò a raccontare di sé, gli disse di chiamarsi Katherine, e, sì, aveva indovinato, non era nata a Trieste. I suoi genitori erano, come dire, beh, un po' nomadi. Dalla Scozia s'erano spostati prima a Parigi e poi in Italia. Infine lei aveva iniziato a viaggiare da sola e era andata a studiare all'Università di California, a Berkeley, si era laureata con una tesi su Joyce.... “e ora sono qui, a Trieste. Per sempre!” aveva esclamato con un imbarazzante sorriso. In quel momento Silvio avrebbe avuto voglia di mangiarla di baci, di tastare la seta di quella strana camicetta, di stringerla forte.

Katherine sembrava avergli letto tutto negli occhi e dopo un momento di silenzio gli chiese: “Immagino che tu abiti qui vicino... inizia a fare troppo caldo”. “Non osavo chiedertelo...” rispose Silvio.
Nell'appartamento la luce settembrina era mitigata dalle persiane accostate. Lungo il corridoio si aprivano una serie di porte a vetri decorate con motivi liberty, che davano su quella che sembrava un'interminabile infilata di stanze. A Katherine piaceva tutto di quella casa, aveva esclamazioni per ogni mobile, ogni tappeto, per i rari soprammobili. Entrata in quello che era stato lo studio di suo padre, tappezzato di libri, lei si rotolò addirittura per terra, mostrando a Silvio le sue lunghissime gambe.


“Cosa guardi?” gli chiese mentre le fossette si facevano più profonde. “Sta a vedere che finiamo come Samuel e Peggy, che quando s'incontrarono per la prima volta passarono dieci giorni a letto!”, “Ah, sì”, rise Silvio, “lo scontroso Beckett e la Guggenheim collezionista...! E perché no?”, “E allora, sì!” disse Katherine e gli diede un bacio sul naso.
Come un marinaio che aveva passato anni per mare, Silvio si lasciò accogliere nel porto insperato e inaspettato delle braccia di Katherine. C'era qualche forza magnetica che li attraeva. Curiosi, si cercavano, s'osservavano. Poi, come agrimensori al primo incontro con terre nuove e inesplorate, iniziarono a riconoscersi e a disegnare con le dita e le labbra cartografie inedite e fino ad allora sconosciute.
Come Samuel e Peggy, anche Silvio e Katherine si amarono per dieci giorni e dieci notti come naufraghi scampati a un uragano. I rumori e le luci di Trieste ruotavano attorno a loro alla velocità inesorabile delle sfere celesti.


Ogni tanto suonava il citofono e il commesso di Masè consegnava a Silvio un cestino di provviste. Allora i due amanti si guardavano e scoppiavano a ridere come pazzi e, saltando da una stanza all'altra, urlavano... “Je t'aime!”, “Ti amo!”, “I love you!”, “Te quiero mucho!” A parte quelle esplosive dichiarazioni d'amore, non si dissero molto, o almeno sarebbe stato difficile tradurre il linguaggio privato, fatto di nonsense, che avevano iniziato a usare tra loro e che era divenuto parte integrante dei loro giochi amorosi.
La mattina dell'undicesimo giorno Silvio si svegliò pensando che forse il medico di base non gli avrebbe rinnovato il certificato di malattia, ma quello si rivelò il male minore. Katherine era sparita. Di lei non c'era traccia, né degli abiti, né dei suoi strani gioielli. L'aspettò per ore. Inutilmente. La mattina seguente andò al lavoro e quando tornò a casa perquisì di nuovo ogni stanza alla ricerca di un messaggio, un biglietto di addio. Una spiegazione.


Poi lo vide, poggiato sulla scrivania dello studio. Katherine aveva dimenticato il suo quaderno Smolars. Sul frontespizio, con la tipica grafia britannica, c'era scritto “Katherine Baker, enrolled in Jacques Lacan's seminar “Le Sinthome”, Paris 1975-1976”. Il quaderno era pieno di appunti sulle famose lezioni che lo psicoanalista francese aveva dedicato a James Joyce e all'idea di jouissance. “Enrolled??? iscritta??? Katherine aveva partecipato a quel seminario di psicoanalisi nel 1975???” si chiese ad alta voce Silvio.
Il quaderno gli cadde di mano e dalle ultime pagine si staccarono alcune polaroid. I colori erano come al solito ormai virati, ma le immagini erano chiare: ritraevano tutte una ragazza identica a Katherine assieme a un uomo identico a Silvio. Quell'uomo era suo padre, sua era l'inconfondibile grafia dietro alle polaroid: “Katherine, je t'aime, éternellement ton Giorgio, Paris 20 janvier 1976”.


Silvio si sentì mancare la terra sotto i piedi. Ora stava davvero male. Come una furia mise a soqquadro le carte del padre e in un faldone marcato “Lacan” trovò quello che cercava. Lettere, ritagli di giornali. Silvio scoprì così che Katherine Baker era nata a Aberdeen in Scozia nel 1951, che aveva conosciuto Sartre e Foucault durante il '68 a Parigi, che aveva fatto esperienze psichedeliche con Timothy Leary in California e che, durante un seminario di Lacan, aveva conosciuto Giorgio, uno psichiatra triestino con tanti capelli ricci e lo aveva amato d'una passione tanto travolgente da spingerla a raggiungerlo a Trieste. Giorgio non le aveva però detto d'essere sposato e in attesa di un figlio. Folle d'amore Katherine lo aveva aspettato per giorni sulle Rive, lo aveva pregato, ma Giorgio le aveva chiesto di dimenticarlo.


Esausto, con gli occhi arrossati, Silvio aprì un'ultima busta contenente ritagli di cronaca nera del Piccolo risalenti al mese di marzo 1976. Gli articoli riportavano lo strano caso d'una studiosa di Joyce che s'era venuta a suicidare a Trieste. Sull'esempio di Virginia Woolf s'era riempita il cappotto di sassi, e s'era lasciata affogare nelle acque della Sacchetta. I genitori, da Londra, avevano dato istruzioni per farla seppellire al cimitero evangelico di Trieste, in una tomba vicina a quella di Stanislaus Joyce. Non è troppo lontana, pensò Silvio. Ora era certo che sarebbe tornata, che - in qualche modo - l'avrebbe incontrata di nuovo. S'era ormai fatto giorno, forse - per una volta - sarebbe arrivato in ufficio in orario. —


 

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