E allo stadio Grezar si gioca la partita del sesso da Leopardi a Rocco Siffredi
TRIESTE «Chi ha preso le mie mutande?». Il vecchio con la barba bianca e una bottiglia di birra in mano che uscì dalla porta di un bungalow aveva un aspetto familiare. Ma sì, era lui, Charles Bukowski, il vecchio porco. Tirò un sorso dalla bottiglia, barcollò. «Dove sono le mie mutande?» ripeté. Dietro la porta del bungalow si intravedeva una bionda che fumava stravaccata su una branda. «Buk, le ha sulla testa», lo informai. Si tastò e con una risata le mise nella tasca dei luridi jeans che indossava. «Thanks man», mi disse. Alzai il pollice verso di lui e mi guardai intorno.
Dov'ero finito? Un prato di erba verdissima, gente che passeggiava o discuteva seduta sui gradoni attorno. Un senso di tranquillità e pace mi invase. Mi si fece incontro un tipo dall'aria familiare. «Benvenuto nella comunità di Elicona», mi disse. La gobba non lasciava dubbi sulla sua identità. «Maestro, azzardai timidamente, è proprio lei?». «Mi chiami Giacomo», disse mentre succhiava avidamente un gelato, sbrodolandosi la camicia bianca e occhieggiando un gruppo di ragazze poco distante. «Maestro - azzardai - scusi la domanda: lei ha mai ciulato?». Fui brutale, lo ammetto, ma la curiosità che mi portavo dietro dai banchi di scuola poteva finalmente essere soddisfatta. Mi guardò interdetto. «Un verbo che non conosco, devo chiedere alla Crusca». «Maestro», lo guardai allusivo e con la mano a pugno che andava avanti e indietro mimai il gesto volgare. "Ah, perbacco - disse - ma sì, certo, si praticava con donne di libero costume». «E Silvia?», incalzai. «Mai, nemmeno con un dito. Ah, l'amore, l'amore è sofferenza, non gioia», disse.
«Ancora con queste stronzate! Basta, poeta». La voce tonante apparteneva a un tizio che vestiva una tunica sporca e stracciata. «Codesto Diogene di Sinope», mi si fece vicino Leopardi, «è insopportabile come la sua puzza. Lo chiamano il Cinico». «Cinico? Certo, l'amore è un ricatto che ti tiene alla catena», disse il filosofo greco. «Io me ne sto da solo, non voglio nessuno intorno e sono felice. E quanto alle cure del corpo mi basto da me». La mano che la tunica nascondeva era inequivocabilmente impegnata a dare corpo alle sue affermazioni. «È un dilemma, quello che il filosofo propone, non del tutto inappropriato», disse Leopardi, che mi prese per la manica della giacca. «Venga, voglio farle conoscere qualcuno».
Ci incamminammo verso un sentiero e riconobbi Natalia Aspesi che si tirava dietro, legato al guinzaglio come fosse un fedele cagnolino, Aldo Busi che camminava carponi. La giornalista reggeva tra le mani un fascio di lettere e le andava lanciando per aria. «Lettere d'amore, puah! Da anni rispondo alle vostre lacrimevoli storie: banda di sfigati, non me ne frega niente di voi». «Brava Natalia. Quei mentecatti dovrebbero fornicare di più e scrivere di meno, sarebbero più felici. Cacadubbi, prendete e godete finché potete, che del doman non v'è certezza», concluse Busi e la strana coppia sparì alla vista. «Maestro, cos'è la comunità di Elicona?», gli chiesi mentre camminavamo sull'erba tagliata all'inglese. «Un luogo consacrato alla poesia. Noi siamo un'Accademia, un Simposio. Qui si discute, anche animatamente, sa, a volte ci si accapiglia». «Ho capito, come un festival di filosofia». «Sì, ma qui siamo a livelli altissimi, sentirà. Ora si discute dell'amore. Si guardi attorno. Non riconosce questo luogo? È lo stadio 'Grezar'».
Mi meravigliai di non aver riconosciuto prima l'impianto sportivo di Valmaura. Eravamo al centro del terreno di gioco. «Cosa c'entra - chiesi a Leopardi - con l'amore?". «Se parla così non ha mai palpitato per una squadra di calcio. Non ha mai letto Saba né la canzone che io stesso scrissi per un giocatore di pallone. Intendiamoci, palla col bracciale, gioco seguitissimo prima del calcio. Eravamo in diecimila quel giorno nello sferisterio di Macerata ad ammirare Carlo Didimi, il campionissimo. Gli scrissi un'ode: Te l'echeggiante arena e il circo, e te fremendo appella ai fatti illustri il popolar favore».
Leopardi trasognato interpretava se stesso. «Insomma, il tifoso ama - proseguì convinto - ma, a differenza degli altri amori, non cambia mai l'oggetto del suo palpito. Non sente, qui dentro, risuonare gli antichi applausi, la passione, l'amore?». Così Leopardi palpitava non solo per Silvia, ma anche per il gioco del pallone. Che inguaribile romantico, pensai. «Ma adesso voglio presentarle un altro punto di vista», riprese il poeta, e seguendo la scia di gelato di Leopardi arrivai da un signore vestito come negli anni Trenta del secolo scorso.
«L'amore è un'invenzione della nostra cultura, non esiste in natura», stava scandendo l'uomo. «Un romanzetto buono per le masse, un oppio dei popoli più potente della religione», proseguì con aria pacata ma sicura. «È Denis de Rougemont - mi sussurrò all'orecchio Leopardi -. Rappresenta l'ala oltranzista, sostiene che l'amore non esiste». «Anche i poeti, a ben vedere» continuò Rougemont, «pensiamo ai trovatori, non cantavano l'amore per la donna, ma per la Madonna, erano degli eretici, contrabbandavano così la loro fede. Saffo? Pulsioni. Catullo? Solo pulsioni. Si è sempre scambiata la sofferenza per l'amore. Ma oggi si sente dire non c'è amore senza pena. E tu, Giacomo, ci sei finito dentro come una pera cotta», concluse accusando Leopardi. A questo punto si fece silenzio. Avanzava a larghi passi un uomo incappucciato da cui spuntava un naso inconfondibile. Leopardi si inginocchio davanti al Sommo poeta. «Giacomo - disse Dante Alighieri con voce cavernosa - butta via quel gelato che non è cosa che s'addica a un poeta». Leopardi lancio il cono sull'erba. «Non sull'erba, Giacomo, s'è introdotta la raccolta differenziata», ammonì Dante levando i pugni al cielo. «Non si adiri, Sommo», mi intromisi umilmente. Poi non resistetti: «Quanto ho studiato i suoi versi; a volte, lo ammetto, non si capiva un granché».
«Ma come?», si meravigliò Dante, «s'è pure peritato quel tosco, quel Benigni, a spiegarvi le parti più oscure del mi poema. Al centro del quale, ricordatevi, c'è l'amore» disse con tono solenne puntandomi contro un dito ricurvo. «L'amore naturale che è presente in ogni creatura», cominciò a spiegare, «perchè Dio è amore e per amore ha creato ogni cosa. L'omo è un soggetto intrinsecamente, direi ontolongicamente amoroso. Ma non ciascun amore è laudabil cosa. Chi ha sostenuto la forza della passione d'amore è un falso maestro. Per codesta cagione ruppi l'amicizia con Guido Cavalcanti, che andava sostenendo che l'amore è l'irrazionale assoluto. Dove ci porta codesta idea? Alla bufera infernal, che mai non resta», concluse il sommo poeta ansimando.
Era stremato dalla tirata, ansimava e si asciugava la fronte con un grande fazzoletto, così non si accorse che trascinavo via Leopardi, ancora atterrito dalla reprimenda del padre della lingua italiana. Lo condussi lontano, nei paraggi di un gruppo di donne che sciamavano compatte in corteo. Vestivano in jeans e camicioni, portavano a tracolla borse di corda e zoccoli ai piedi. Vidi che Leopardi ne aveva timore. «L'utero è mio», una gli gridò in faccia. «Non lo metto in dubbio», balbettò arrossendo il poeta. Un'altra si rivolse a me, giunse pollici e indici e scandì «io sono mia, non ho bisogno di un uomo». Sono femministe, spiegò Leopardi. «Le nostre quote rosa. Attenzione adesso, stia a mirare che divertente accadimento va a rappresentarsi».
Nel senso opposto vidi arrivare, completamente nudo, un uomo di mezza età ma ancora in forma, seguito da un nugolo di giovani fanciulle in fiore, altrettanto svestite. «Ehi voi», fece il tipo che riconobbi per Rocco Siffredi, l'attore porno, rivolgendosi alle femministe, «sicure che non abbiate bisogno di un uomo?», e così dicendo si mise di fronte alle donne in una posa sfacciata, sfidandole. Le femministe lo circondarono, una cercò di colpirlo con uno zoccolo mentre un'altra, approfittando della calca, fece scivolare una mano tra le natiche di Siffredi, strenuamente difeso dalle sue naiadi. Si scatenò una rissa che a poco a poco degenerò in un carosello orgiastico. Leopardi mi tirò via, ridacchiando, «Turpitudini - disse - basso impero, ahi Italia», ma si divertiva come un matto. «Nell'erotismo c'è questa gerarchia: chi fa; chi osserva; chi sa». A parlare era stato un uomo che emanava una certa energia repressa. Aveva in mano un quaderno e stava declamando. «Non l'amata che è lontana, ma la lontananza è l'amata».
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