Draghi: «Ne usciremo coi vaccini e un contratto per la produzione»
ROMA «Com’è il vaccino presidente? » «Non lo so, aspetto il mio turno». Durante i pochi minuti della visita nel centro della Croce Rossa a Fiumicino, una signora seduta per l’iniezione si chiede se Mario Draghi l’abbia fatto. Joe Biden e Boris Johnson hanno potuto mostrare fieri il braccio vaccinato, lui deve rassicurare sul contrario. L’immunizzazione degli italiani va troppo a rilento perché il gesto non venga giudicato come un privilegio. Il tendone montato nell’enorme parcheggio a due passi dall’aeroporto salva dal virus circa mille persone al giorno. Lo gestisce un medico di trentatré anni, Valerio Mogini. Nel primo discorso da premier c’è spazio anche per lui.
«L’impegno che ho preso con gli italiani è di dare nuovo vigore alla campagna vaccinale». Nelle ore del caos attorno alla sicurezza del prodotto Astra Zeneca è il compito più difficile. A Fiumicino hanno a disposizione solo quello, e da ieri lo usano anche sui più anziani. Secondo quanto riferisce Mogini le notizie rimbalzate dalla Danimarca e dalla Norvegia non hanno prodotto il fuggi fuggi che alcuni temevano. A mezzogiorno erano già arrivate la metà delle persone prenotate per l’intera giornata. Sul punto Draghi è netto, ci mette la faccia e non lascia dubbi: «Il parere dell’Agenzia per il farmaco, condiviso dagli scienziati, è che non vi sia alcuna prova che questi eventi siano legati alla somministrazione del vaccino».
Pur non dicendo una parola sul passato, il premier rivendica il cambio di passo sul piano vaccinale: «Il ritmo giornaliero è di 170mila somministrazioni al giorno. L’obiettivo è triplicarlo presto». Draghi ha affidato il compito al nuovo capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio e al capo della logistica dell’Esercito Francesco Figliuolo. Se riuscissero nell’obiettivo di mezzo milione di vaccinati al giorno, il Paese sarebbe fuori dal tunnel entro l’estate. Il premier si dice sicuro di poter contare sul rispetto degli impegni da parte dell’ultimo prodotto autorizzato – Johnson and Johnson – ma soprattutto annuncia la conclusione del «primo contratto tra un’azienda italiana ed una titolare di un brevetto». Lo stabilimento è a Monza, l’azienda – la Thermo Fisher Scientific – è americana, il vaccino parla tedesco: Curevac. Secondo la tabella di marcia dell’ente regolatorio europeo è quello che dovrebbe ricevere la prossima autorizzazione. «Continueremo a sviluppare la capacità produttiva di vaccini in Italia. L’Unione ha preso impegni chiari con le case farmaceutiche e ci aspettiamo che vengano rispettati».
La prima in pubblico di Draghi non poteva accedere in un momento più difficile. Da lunedì più della metà degli italiani saranno in zona rossa e con le scuole chiuse. Quasi ovunque la curva dei contagi sale in maniera preoccupante. Lo staff di Palazzo Chigi ha ragionato a lungo su quale fosse il luogo meno complicato da raggiungere in auto e abbastanza grande da gestire la presenza di molti. Il caso ha voluto che fosse quello che più di ogni altro dà la dimensione del disastro causato dalla pandemia. In tempi normali l’area è piena di auto dei romani in viaggio in giro per il mondo. Ora il Leonardo da Vinci è un luogo quasi spettrale, e al «lunga sosta» ci sono solo file di persone in ansia per un tampone, o cariche di speranza col vaccino. Draghi si dice «consapevole per le conseguenze sull’istruzione dei figli, sull’economia e sullo stato psicologico di noi tutti». Promette più lavoro a distanza, congedi parentali, fondi per pagare la baby sitter. Ammette che i 32 miliardi del decreto «sostegni» (procede a rilento da giorni al Tesoro) non basteranno, e che ci sarà una nuova richiesta al Parlamento per aumentare ancora il deficit. Finché la Banca centrale europea ci sosterrà, il deficit e il debito dovranno salire nella speranza che prima o poi riparta la crescita. La spesa aggiuntiva servirà a pagare nuova cassa integrazione, gli aiuti ai «nuovi poveri, ormai maggioranza nelle file della Caritas», e «agli autonomi e partite Iva in modo più semplice senza criteri settoriali».
Abituato dal lavoro e dalla vita a non mostrare empatia, l’ex banchiere centrale fa un grosso sforzo con sé stesso per vestire i panni di chi deve rassicurare gli italiani dal virus, dalla crisi e dalle nuove restrizioni a un anno dal primo lockdown. Non c’è ancora spazio per le domande dei giornalisti, si scioglie raccontando il breve giro fra i giovani volontari, fa autoironia quando si accorge che nel discorso ci sono troppe parole in inglese. Per lui, che nella vita lo ha parlato tanto quanto l’italiano, è un passaggio verso il nuovo mestiere della politica. «A tutti chiedo di aspettare il proprio turno, come ha fatto in maniera esemplare il presidente della Repubblica. È un modo per mostrarci una comunità solidale, proteggendo chi più ha da temere per gli effetti della pandemia». Draghi non dice di più, ma il messaggio è ai molti che, più o meno legittimati dalle scelte delle rispettive Regioni, si è trovato in prima fila per avere l’iniezione e ne aveva meno bisogno di altri. —
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