Dopo 123 anni di attività si spengono gli impianti della Ferriera di Servola

TRIESTE «Quanto durerà la Ferriera? Non è facile dirlo. Personalmente la amo e spero che riesca a non chiudere mai; ma i triestini di oggi hanno una spiccata tendenza al suicidio della loro città». Così scriveva nel 2010 Aldo Raffaello Stura nella prefazione al libro “Omo de fero”, sottotitolo: “Sotto la bianca fumata della Ferriera di Servola” (Luglio Editore). Lo stop decisivo, monitorato dall’Arpa, è avvenuto ieri dopo un’agonia di 5 giorni. L’area a caldo è stata spenta definitivamente, all’alba, dopo l’ultima colata dell’altoforno. Ma in realtà la Ferriera ha cessato di vivere il 28 marzo alle ore 13.37 con l’ultima sfornata della cokeria e con gli operai che lanciano nel carbone incandescente i loro caschetti di lavoro.
«Una grande tristezza. Un sentimento comune con tutte le persone che anno lavorato in quella fabbrica. Mi ha telefonato l’ex direttore al tempo della Pittini. Sono tutti dispiaciuti di come sono andate le cose», attacca Roberto Decarli, ex consigliere comunale, 32 anni passati alla Ferriera, nato a Servola da madre servolana. «La cosa incredibile, dal punto di vista politico, è che a tutt’oggi non abbiano ancora firmato l’accordo di programma. Parlano e basta. É andato male tutto. Questa cosa è capitata anche in un momento triste per tutto il Paese. Con la pandemia in corso la chiusura di una fabbrica storica per Trieste rischia di passare inosservata. Non si è potuto fare niente. Neanche un incontro pubblico». Una storia lunga 123 anni finita in un lampo è già dimenticata. «Mi è piaciuta la proposta dell’ex assessore Umberto Laureni di aprire lo stabilimento alla città come è avvenuto alle Acciaierie di Cornigliano (Genova) nel 2005 - continua Decarli -. Qualche tempo fa, prima che esplodesse il virus, ho incontrato il direttore dello stabilimento Vincenzo Dimastromatteo e gli ho chiesto di fare un giro per l’impianto per vedere se riusciamo a salvare qualche pezzo che può raccontare la storia della fabbrica. Speriamo che superata questa emergenza si riesca a fare a qualcosa. Non vorrei che venisse tutto rottamato in silenzio. Si rischia di buttare via storia, umanità e lotte di tanti lavoratori. É importante salvaguardare almeno la memoria».
Non si tratta solo di archeologia industriale. «Nel caso della Ferriera c’è un intero rione in gioco. Servola era una collina di contadini e pescatori - spiega Decarli -. Con l’avvento della Ferriera si è sviluppato e collegato alla città. Oggi è un rione morto, un cadavere. É tutto chiuso. E non per il coronavirus. É il risultato di vent’anni di lotta del sindaco Dipiazza e della destra triestina contro la Ferriera. Hanno voluto chiudere tutto per un pugno di voti. Una bruttissima pagina della politica triestina. Molti di quelli che si sono opposti alla Ferriera non sono servolani».
Un delitto, anche secondo Osvaldo Bianchini, che ha lavorato come impiegato tecnico fino al 1989 dirigendo una squadra della fonderia: «Mio padre fa lavorato dal 1935 fino alla pensione. Io sono entrato dopo il servizio militare in marina. Con la Ferriera ha mantenuto la famiglia. Non era facile il lavoro in fonderia, ma c’era una grande solidarietà tra i lavoratori. Un’umanità vera. Eppoi la fabbrica era tutto. Andavamo con mia mamma a fare la spesa allo spaccio aziendale- racconta Bianchini -. Resta il fatto sono entrato dopo il servizio militare in marina, mi hanno assunto come perito».
«Non riesco a digerire questa chiusura. La Ferriera è stata chiusa per raccattare un po’ di voti. I primi 100 anni non ci sono mai stati problemi. Hanno montato tutta la città contro la Ferriera - spiega Bianchini -. Il sindaco ci ha paragonato a un “cancro”. E pensare che Servola non esisterebbe senza la Ferriera. Sotto l’Austria nessuno si lamentava e c’erano tre altoforni in funzione. C’era anche una canzone che diceva: “Ti col mus, mi col tram / ’demo a Servola doman”». Il rione più attrattivo di Trieste grazie alla Ferriera.
«Sono un nostalgico ex altofornista, ho lavorato per ben 27 anni in quel impianto della Ferriera di Servola e da 35 anni sono in pensione - scrive Alessandro Vidoli -. Io, che ho vissuto giorni e notti in quella area dell’impianto, mi sento un po’ “mutilato”, sono come uno che ha perso un amico. Ho iniziato a lavorare alla Ferriera nel 1957 e allora essere destinato all’altoforno era come lavorare nell’inferno dei vivi».
Ma c’è anche chi, pur con il magone, è convinto che il destino dell’area a caldo fosse segnato da tempo. La Ferriera era da un decennio un impianto morente. «Doveva finire così. Il primo a preventivare la chiusura dell’area a caldo è stato Arvedi quando è arrivato. Ma è da decenni che la Ferriera era uno stabilimento di servizio alle altre acciaierie italiane. Negli anni migliori noi facevano le lingottiere per Taranto», spiega Waldy Catalano, ex segretario provinciale della Cgil, che, prima di approdare al sindacato rosso, ha lavorato in cokeria per 12 anni, dal 1970 al 1982. «Certo, resta un po’ di magone. É stata la fabbrica di mio nonno e poi di mio padre. E un pezzo della mia vita che si chiude - aggiunge Catalano -. Ero bambino che a casa arriva per l’inverno il carbone della Ferriera. E l’estate c’erano le colonie. E poi quando andavi in banca e nominavi Italsider ti stendevano il tappetto rosso. Così mi sono sposato subito dopo il militare e senza preparativi. La Ferriera, con tutte le sue contraddizioni e il suo impatto ambientale, ha segnato lo sviluppo di questo territorio. A Trieste c’erano due fabbrica forti: l’Aquila e l’Italsider. La Fincantieri veniva un gradino dopo». Per questo anche lui appoggia l’idea di Laureni. «É importante che resti una memoria di quello che ha rappresentato la Ferriera per sviluppo di questo territorio» aggiunge Catalano.
All’ex caporeparto Giorgio Damiani, da 25 anni in pensione, «fa male vedere la Ferriera che sparisce». «La nostra generazione è stata più fortunata - ricorda -. Fino alla pensione abbiamo potuto mantenerci, dando sicurezza alle nostre famiglie. Ora siamo arrivati alla fine di un percorso costellato di scelte politiche sbagliate fin dagli anni ’80».
«Gli albori del Novecento la città veniva illuminata dal gas della Ferriera, il nuovo millennio si annuncia anche all’insegna dell’energia elettrica che sarà prodotta dalla sua centrale. Sono legami sottili quanto fervidi, ai quali piacerebbe sposare un domani denso di speranze. Decisivo sarà “lavorare assieme”: perché, com’è stato scritto, le grandi speranze sono la prova dei grandi amori». Così scriveva a fine 1997 Riccardo Illy, sindaco di Trieste, nella prefazione al libro “Ferriera 1897-1997” in occasione della mostra del Comune per il centenario della Ferriera di Servola.
Ma anche i grandi amori finiscono. E non resta che consolarsi con la lingottiera “Eva” piazzata sulle Rive alla fine di Corso Cavour all’imbocco del Canale del Ponterosso. «L’impianto fu per 25 anni fra i più grandi e moderni del mondo. Viene dismesso all’inizio degli anni ’90, superato da nuove tecnologie. Le maestranze posero a ricordo delle ricorrenti lotte per il proseguimento della tradizione siderurgica cittadina», si legga sulla targa affissa sulla lingottiera prodotta nel 1964 dalla Fonderia della Ferriera di Servola. Quasi un necrologio. La cronaca di una morte o annunciata. —
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