Dipendente morto per amianto Gli eredi: il Comune ci risarcisca

Nella forma è una questione di soldi, legata a una causa di risarcimento per danni morali e materiali per la morte di un padre di famiglia. Una causa che potrebbe costare all’amministrazione Cosolini (per fatti imputati al Comune venti, trent’anni fa) una cifra robusta. Di alcune, non precisate, centinaia di migliaia di euro. Ma nella sostanza non ha prezzo. Per chi quella causa ha deciso di portarla avanti (moglie e figli di un meccanico comunale deceduto per amianto) è invece una questione di principio, è l’atto finale della battaglia di una vita. E qualora il giudice ne accogliesse le richieste (riconoscendo la colpa per l’assenza di dovute precauzioni sanitarie da parte del Municipio come datore di lavoro della vittima dell’asbesto) ciò non varrebbe solamente per i promotori di tale contenzioso, per i suoi familiari insomma, ma diverrebbe un momento storico, senza precedenti, per la giurisprudenza triestina in materia proprio di responsabilità per le morti professionali da amianto.
La causa in questione - della quale sarà celebrata una prima udienza davanti al giudice Silvia Burelli il 12 febbraio - è infatti il ricorso presentato al Tribunale del lavoro dalla moglie e dai figli di Roberto Persich, ex dipendente del Comune ucciso il primo agosto 2008 da un mesotelioma pleurico, l’ormai tristemente nota malattia indotta dall’esposizione alle polveri d’amianto, che dopo un’inesorabile latenza non dà scampo.
Persich morì a 46 anni, gli ultimi quattro convissuti con la patologia che l’aveva consumato. Tra gli anni Ottanta e Novanta aveva lavorato come meccanico manutentore dei camion della Nettezza urbana nell’officina di via Orsera, prima di arrivare al livello di autista. Cambiava freni, riparava frizioni, smontava e rimontava tubi di scarico. Gli attrezzi del mestiere, all’epoca, erano fra gli altri il tornio, la carta vetrata e il compressore d’aria. Non le mascherine anti-polvere per naso e bocca. Il 4 luglio del 2011, dopo due tentativi giudiziari andati a vuoto, Santina Pasutto, la vedova Persich, che non aveva mai voluto mollare nel nome di suo marito, aveva incassato una prima vittoria morale con il suo avvocato Maria Genovese. Il gip Laura Barresi, su richiesta del pm Maddalena Chergia, aveva rinviato a giudizio per omicidio colposo il capo della Nettezza urbana di quei tempi, Fabio Devescovi. E non era finita lì: contestualmente era stato accertato che nell’ambito del processo penale a carico del superiore di Persich il datore di lavoro, quindi il Comune, nel caso lo stesso Devescovi fosse stato riconosciuto colpevole sarebbe stato chiamato a rispondere solidalmente con lui per l’eventuale risarcimento alla famiglia della vittima, costituitasi parte civile.
A Devescovi, 78enne al momento del rinvio a giudizio, restava poco da vivere. Era malato da tempo anche lui. Il 7 novembre del 2011 il presidente del Tribunale penale Filippo Gulotta aveva preso atto del decesso dell’imputato, documentato dall’avvocato Guido Fabbretti, e dichiarato l’estinzione del processo per «non luogo a procedere». Caso chiuso, quanto meno penalmente. Non ancora chiuso, però, per la vedova Persich e i figli, che si sono rivolti con l’avvocato Corrado Calacione al giudice del lavoro, e non al giudice civile del Tribunale ordinario, trattandosi appunto di una causa risarcitoria per malattia professionale.
La notizia che il contenzioso si è trasferito dal profilo penale a quello del diritto del lavoro la dà, indirettamente, la stessa giunta Cosolini, che sotto Natale ha deliberato all’unanimità dei presenti (mancava l’assessore al welfare Laura Famulari, ndr) di costituirsi in giudizio «per chiedere il rigetto del ricorso» per assenza di prove, impegnando 2.700 euro per le spese legali e dando mandato all’avvocato Pierpaolo Safret, «particolarmente esperto in materia, che ha già rappresentato l’ente nella fase penale, in cui vi è stata una chiamata in causa del Comune quale responsabile civile».
@PierRaub
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