Demolizioni a Servola e area a caldo in pezzi: «Il simbolo dell’addio alla vecchia Ferriera»

Le operazioni di dismissione dell’impianto fra cokeria e altoforno. Gli ex operai: «Chiusa una storia di oltre 120 anni». «Ora una mostra» 

TRIESTE C’era una volta la Ferriera di Servola. Quello che fino a ieri poteva sembrare l’inizio di una storia di fantasia da oggi è una realtà che, dopo anni di polemiche, ha iniziato a materializzarsi con l’abbattimento di parte dell’impianto che si estende per 560.000 metri quadrati fra Servola e il mare.

Cokeria, impianto di agglomerazione, altoforni e macchina a colare sono stati puntellati ed è iniziata la demolizione, con i pezzi che, uno dopo l’altro, vengono accatastati sul terreno, reso nero da più di un secolo di lavorazione della ghisa e del carbon coke. Centoventiquattro, per l’esattezza, sono gli anni di vita dell’insediamento industriale sorto a fine ’800 alle pendici del colle di Servola, che ha scandito la vita di molte famiglie del rione e della città in genere. Così, ad esempio, per la famiglia Bianchini: Osvaldo vi ha lavorato per 30 anni, che aggiunti ai 35 di suo papà fanno 65, ossia oltre metà della vita dell’impianto. Una simbiosi.

«La Ferriera fa parte della mia famiglia – sottolinea Osvaldo Bianchini –, quando vi sono entrato ero giovanissimo. Una volta finito l’Istituto Nautico e svolto il servizio militare mi stavo accingendo a lavorare sulle navi. All’epoca però, parliamo dell’inizio degli anni ’60, ero fidanzato e volevo sposarmi. Mi dispiaceva partire e allora feci domanda per entrare in Ferriera, su suggerimento di mio padre, e poco dopo mi assunsero. Vi sono entrato nel 1961 per poi andare in pensione nel 1989». Osvaldo la chiama “la Fabbrica” quasi a voler dare un nome e un cognome a qualcuno che l’ha accompagnato per quasi tutta la vita.

Ancora oggi frequenta il Circolo per giocare a carte con i vecchi colleghi. «Questa era una fabbrica che inquinava – prosegue – ma negli ultimi anni l’inquinamento era diminuito di almeno 10 volte. Secondo me l’abbattimento dell’area a caldo è una catastrofe. Qui si tratta della fine di tutta la Ferriera perché chiudere l’area a caldo significa fermare il motore dell’impianto. La politica alla lunga ha assecondato gli ambientalisti sulla pelle degli operai e così adesso 600 persone più quelle che lavoravano nell’indotto sono rimaste con un futuro tutto da scrivere. Io per fortuna sono in pensione ma c’è un’intera generazione costretta alla cassa integrazione».

La sensazione di incertezza parte da Servola e abbraccia l’intera città. «Trieste ormai è rimasta senza un’industria – conclude l’ex operaio Bianchini –, tutte le speranze per la ripresa economica sono delegate al porto, ma basterà per rimettere in circolazione tutte le persone che lavoravano qui?».

Roberto Decarli ha lavorato nello stabilimento servolano per 32 anni, lasciandovi anch’egli un pezzo di cuore e di impegno sindacale. «Sono finito qui dentro subito dopo aver svolto il servizio di leva – spiega –. Grazie alla Ferriera ho potuto sposarmi e mettere su famiglia. Tutta la mia vita si è svolta dentro e attorno allo stabilimento. Qui sono nate amicizie, momenti di solidarietà, altri di difficoltà, la nascita di una coscienza sindacale che ha attraversato periodi anche tesi». La speranza di Decarli è quella che il patrimonio storico e industriale ora non vada perduto. «La nostra intenzione – racconta – è quella di creare un museo documentale per valorizzare ciò che resta dell’impianto. Sarebbe bello creare una mostra dove poter riprodurre oltre 120 anni di vita della fabbrica. Ne abbiamo già parlato con il Comune – anticipa –, ora non resta che coinvolgere anche Arvedi, la Regione e lo stesso Ministero del lavoro». —


 

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