Dell’Acqua, quei formidabili anni con Basaglia

Sabato la consegna del Premio Nonino allo psichiatra triestino di Salerno: «Dobbiamo continuare il percorso iniziato con la legge 180»

Ci saranno idealmente anche Franco Basaglia e i matti di San Giovanni, sabato a Ronchi di Percoto in Friuli, a ricevere con lo psichiatra Peppe Dell’Acqua (a fianco, fotografato da Andrea Lasorte) il Premio Nonino. Con lui, con loro, sul palco delle distillerie, fra gli alambicchi fumanti nella fredda campagna friulana, pure tanti medici, infermieri, volontari, amici che in oltre quarant’anni sono stati protagonisti della più grande rivoluzione civile - l’unica? - che sia stata portata a compimento nella città di Trieste. La battaglia per la dignità delle persone, per il rispetto di tutte le persone, anche quelle colpite dalla malattia mentale.

«Qualcuno - dice Peppe Dell’Acqua, classe ’47, salernitano nato a Solofra, provincia di Avellino, nella casa della nonna materna, che dal ’71 è diventato triestino d’adozione - sostiene che quel che abbiamo fatto, quel che è avvenuto qui, forse non sarebbe stato possibile in un’altra città. Si pensa sempre a Trieste come a una città tollerante. Devo dire che nei nostri confronti non lo fu, fu intollerante ma con intelligenza. E questo rappresentò per noi uno stimolo».

Ricorda la prima volta che vide Basaglia?

«Come potrei scordare. Fu nell’aprile del ’71, a Parma, nel manicomio di Colorno. Ero uno studente di medicina che stava per laurearsi. Giocavo a rugby nel Cus Napoli. Approfittai di una trasferta per andare a trovarlo, a conoscere questo strano medico di cui avevo sentito parlare».

Cosa sapeva di lui?

«In facoltà, negli ambienti del Movimento studentesco napoletano si alzavano molte critiche alla medicina ufficiale. Io frequentavo l’Istituto di malattie nervose e mentale, di manicomi e psichiatria sapevo poco o nulla. Ma di Basaglia si sentiva parlare. Tanto che il direttore dell’istituto amava ripetere: nella mia clinica non si deve basagliare...».

I divieti creano curiosità.

«Già. Un compagno di studi napoletano un giorno disse che conosceva uno che lavorava con Basaglia. Fu sufficiente per organizzare quella visita, in occasione di una partita di rugby con il Cus Parma. Una visita che mi ha cambiato la vita».

Che accadde?

«Entrai a Colorno, era la mia prima volta in un manicomio. Ricordo l’odore di piscio, sudore, roba fermentata. Ero impaurito. Mi fecero entrare nella stanza di Basaglia durante una riunione. Ricordo che si alzò, mi venne incontro e volle che anch’io gli dessi del tu, cosa inimmaginabile all’epoca. Gli dissi che mi sarei laureato a giugno. E lui, per tutta risposta: beh, allora vieni con noi, andiamo a Trieste...».

Città che lei conosceva?

«Ci avevo passato qualche giorno nell’estate ’65, quella della maturità. Il classico viaggio dopo gli esami. Tre amici in autostop, da Salerno sù, verso Nord, lungo il versante adriatico. Venezia, Trieste, Vienna, la Germania. Devo dire che quella sera, entrando dalla strada costiera e fermandomi a dormire all’ostello di Miramare, avevo avuto una strana sensazione: quasi come un sentirsi a casa, forse perchè tutte le città di mare un po’ si somigliano, forse perchè il sole tramontava sul mare, come a Salerno».

Torniamo a Basaglia.

«Nel ’68 aveva pubblicato “L’istituzione negata”, sull’esperienza al manicomio di Gorizia. Al di là del Premio Viareggio e delle traduzioni in varie lingue, il libro aveva avuto un impatto molto forte. Dopo un anno sabbatico negli Stati Uniti, dove si cominciava a parlare di deistituzionalizzazione, e i due anni a Colorno, nell’agosto ’71 arriva a Trieste. Con lui un primo nucleo di giovani medici, fra cui Franco Rotelli».

Lei quando arriva?

«Nella notte fra il 3 e il 4 novembre di quello stesso ’71, a bordo di una vecchia 500. Primi mesi in una pensioncina a Barcola, che fra l’altro anni dopo divenne in qualche modo famosa per un caso di eutanasia. Ma vivevo praticamente a San Giovanni, che era ancora un manicomio, con 1182 ricoverati, con tutti i suoi orrori e le sue brutture».

Come cominciò il vostro lavoro?

«Basaglia istituì subito laboratori di pittura e di teatro dentro il manicomio. Nacquero le case per i matti. E una cooperativa di lavoro per loro, che così cominciarono a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Fu la prima cooperativa sociale, con vent’anni di anticipo su tutte le altre, e nacque con uno sciopero. Ci fermammo tutti: medici, infermieri, volontari, matti... Ospedale bloccato perchè venisse riconosciuto il diritto al lavoro a tutti, anche ai matti».

Formidabili quegli anni?

«Quei primi anni, diciamo i primi dieci anni, hanno letteralmente sconvolto la mia vita. Anni di fermenti, di contraddizioni, di incertezze, ma anche di rotture e conflitti. Accadevano cose che nella quotidianità a noi sembravano normali, ma erano delle piccole grandi rivoluzioni assolute».

Avevate dubbi?

«Basaglia diceva che dovevamo seminare, scommetteva che quei semi sarebbero germogliati. A volte doveva “combattere” anche con noi. Non sempre eravamo d’accordo sul che fare. Quando nel ’78 decidemmo di occupare la Casa del marinaio lui si dissociò pubblicamente. Diceva che bisognava lavorare nella legalità, nelle istituzioni».

Trieste, intanto?

«Per la città fu un trauma forte. Prima il rione di San Giovanni e poi la città si trovarono ad affrontare qualcosa che non poteva essere accettato. Il manicomio era baluardo di certezze, si stavano abbattendo le sue mura, ciò era innaturale. La città era sgomenta, era la prima a essere esposta a un fatto di questo genere».

Diceva che fu intollerante.

«Ma non poteva che essere così. E fu davvero un’intolleranza intelligente, che per noi costituì uno stimolo. E iniziative come la festa delle castagne, Marco Cavallo, i concerti di Ornette Coleman, Area e poi tutti gli altri, che attirarono migliaia di giovani, erano tutti fatti, azioni che cercavano il dialogo. Offrivamo parole per cercare di dare ragione a ciò che stava accadendo».

La politica?

«Si spaccò in maniera trasversale. In ogni partito c’era chi guardava a noi con interesse e chi ci attaccava. La Dc con Zanetti ci sosteneva, seppur con fatica. Basta rileggere i verbali dei consigli provinciali. Ma c’era anche un’altra Dc, penso a Vita nuova, che ci sparava autentiche cannonate. Anche il Pci era diviso, e persino a destra trovavi chi ci riservava attenzione e chi ci aggrediva, non soltanto a parole».

Il 29 agosto dell’80 muore Basaglia. E voi restate orfani.

«Io per la verità ero rimasto orfano per davvero, proprio il mese prima. Avevo perso mio padre, l’uomo che senza dirmi nulla mi aveva insegnato l’importanza e la mistica del lavoro. Faceva il ferroviere, con mia madre casalinga ha cresciuto cinque figli, io sono il quinto, tutti laureati. Una cosa che nell’Italia di oggi non sarebbe più possibile. Ricordo la sua delicatezza, la comprensibile preoccupazione quando gli dissi che volevo iscrivermi a medicina. Ma anche il suo appoggio, sempre».

Basaglia?

«Dopo la promulgazione nel ’78 della legge 180, nel ’79 era stato chiamato a Roma, a coordinare i servizi psichiatrici della Regione Lazio. All’inizio dell’80, a Berlino, sviene dopo una conferenza. Da qual momento la malattia avanza con velocità. Fino all’epilogo».

Poi?

«Già prima di partire per Roma, Basaglia aveva identificato in Franco Rotelli la persona che avrebbe portato avanti il suo lavoro. Avevano discusso molto assieme, si erano anche scontrati, perchè - come diceva sempre lui - non c’è cambiamento senza conflitto. Rotelli seppe prendersi sulle spalle questa grande responsabilità: gestire la spinta innovativa degli anni Settanta, coniugarla con un quadro normativo mutato, rapportarla al mondo delle istituzioni, tradurre in concretezza i sogni visionari. Quando nel ’96 ho preso il suo posto a capo del Dipartimento di salute mentale ho trovato un grande lavoro che era stato svolto».

Oggi?

«Dobbiamo continuare questo percorso. E Trieste, lo dirò sabato a Percoto, deve ritrovare l’orgoglio di questa storia. C’è un patrimonio di conoscenza che non deve essere disperso. In quarant’anni sono venute decine di migliaia di persone, da tutto il mondo, a studiare qui l’esperienza triestina e italiana. La città, le sue istituzioni e suoi cittadini, devono salvaguardare questa storia. Qui abbiamo scoperto e affermato che gli uomini restano tali anche quando sono malati. Non mi sembra una cosa da poco. Mi viene da azzardare - conclude Dell’Acqua - che forse è una scoperta più importante del bosone...».

twitter@carlomuscatello

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo