Delitto alla Casa del Clero di Trieste, l’accusato sceglie il silenzio
TRIESTE «Ma come, la cosa è diventata pubblica? No, non ho nulla da dire, anche perché attendo di parlare con il mio avvocato in merito a questi ultimi sviluppi». Dall’altro capo del telefono la voce di monsignor Paolo Piccoli, sacerdote di 51 anni nato a Verona e fino a un paio d’anni fa in servizio a Trieste, giunge chiara ma un po’ spaesata.
L’uomo di Chiesa risulta sotto inchiesta come possibile responsabile del “giallo del Seminario” che due anni fa sconvolse Trieste. Allora il 92enne monsignor Giuseppe Rocco, originario di Barbana d’Istria, fu trovato cadavere nella sua stanza al secondo piano della Casa del Clero di via Besenghi. Sembrava una morte naturale ma l’autopsia, alla fine, accertò che si era trattato di uno strangolamento. Ora don Piccoli da “supertestimone” della prima ora passa, per la giustizia, a presunto omicida.
Ma dalla Liguria, dove da tempo si trova, il prete non si scompone. Così come la Curia triestina. L’arcivescovo Crepaldi, per bocca dell’addetto stampa Claudio Fedele, parla di «forte dolore, un dolore che tutti noi uomini di Chiesa proviamo da tempo. Restiamo in attesa degli sviluppi giudiziari, con piena fiducia nella magistratura».
Non una parola per don Piccoli. Giammai di perdono, poiché questo è riservato ai colpevoli mentre ora il prete veronese non lo è. La morte del suo anziano “collega”, come riscontrò il medico legale Fulvio Costantinides, fu dovuta alla rottura di un piccolo osso in corrispondenza della carotide, chiamato “ioide”. Soffocamento naturale o strangolamento?
Le indagini sembrano propendere per la seconda ipotesi. Tanto che don Piccoli, difeso dagli avvocati di fiducia Claudio Santarosa e Stefano Cesco del Foro di Pordenone, dovrà comparire il prossimo 13 dicembre davanti al gup Giorgio Nicoli, il giudice per l’udienza preliminare: deciderà a proposito della richiesta di rinvio a giudizio a suo carico davanti alla Corte d’assise, per l’ipotesi di reato di omicidio aggravato (per lo stato di debolezza della vittima, vecchia e cardiopatica), formulata dal pm Matteo Tripani.
Un punto di svolta, quindi, nell’inchiesta sul cosiddetto “delitto del Seminario”, avvenuto nel 2014. Don Piccoli, vicino di stanza della vittima, quella notte era uno dei pochi presenti nella Casa del Clero di via Besenghi. La principale, ancorchè non unica, prova indiziaria è costituita dal fatto che una serie di piccole macchie di sangue, trovate sotto il corpo di don Rocco riverso senza vita sul suo letto, appartengono senza ombra di dubbio al profilo genetico di don Piccoli.
Lo hanno attestato le analisi dei Ris di Parma, che una volta accertato che quel sangue non era della vittima hanno isolato un elenco di Dna, specie attraverso cosiddetti “tamponi” volontari, cioè campioni di saliva resi dalle persone convocate dagli inquirenti. Il presunto assassino, in una deposizione, si sarebbe difeso sostenendo di essere affetto da una malattia dermatologica che gli provoca talvolta piccole emorragie, anche alle mani, e che il sangue si sarebbe potuto propagare nei paraggi del corpo senza vita di don Rocco perché fu proprio lui, l’accusato, a impartire la benedizione nel momento in cui venne trovato morto. Una spiegazione che non viene ritenuta del tutto credibile dagli investigatori anche perché quelle macchioline sono state rinvenute appunto al di sotto del cadavere, in punti di difficile accessibilità in occasione di un’estrema unzione, e non solo al di sopra o ai suoi lati. Il movente al momento più realistico sarebbe il tentativo dell’omicida, scoperto a rubare alcuni oggetti sacri, di fare tacere l’altro sacerdote tappandogli la bocca: un gesto fatale. Omicidio preterintenzionale.
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