Del Vecchio e la sua ultima battaglia per le Generali: la partita adesso è piena di incognite
MILANO La morte di Leonardo Del Vecchio apre alla possibilità di nuovi scenari nei centri di potere della finanza italiana, come del resto evidenziato dal nervosismo che per tutta la seduta di ieri ha caratterizzato i titoli Generali e Mediobanca. La sfida sull’asse Milano-Trieste è recente.
Nel 2019 Del Vecchio è entrato in Mediobanca con poco meno del 7% e ha continuato ad acquistare quote man mano che alcuni storici azionisti mollavano la presa, fino a portarsi al 19,9% per un esborso complessivo vicino ai 3 miliardi di euro. Sarebbe andato anche oltre se la Bce non avesse posto un freno alle sue ambizioni, condizionando l’ulteriore salita alla trasformazione in Delfin in banca, nella considerazione che una società controllante di una banca dovrebbe a sua volta assoggettarsi alla vigilanza di Francoforte. L’ad di Piazzetta Cuccia Alberto Nagel, che in questi anni è stato più volte attaccato da Del Vecchio, è rimasto in sella grazie all’appoggio degli altri azionisti di peso. Ma fino a che punto avrebbe senso per Del Vecchio continuare a essere l’azionista di riferimento di una società senza poter mettere becco nelle decisioni strategiche, appannaggio del management come da tradizione inaugurata dal fondatore Enrico Cuccia?
Per ottenere una risposta bisognerebbe conoscere il volere e le ambizioni degli eredi di Del Vecchio, vale a dire i sei figli (Claudio, Paola, Luca, Marisa, Leonardo Maria e Clemente), titolari del 12,5% a testa, e la moglie Nicoletta Zampillo, che ha in mano il restante 25%.
Lo statuto di Delfin prevede che qualsiasi deliberazione rilevante o proposta di modifica dello stesso statuto debba essere approvata con il voto favorevole dell’88% del capitale votante, e dunque all’unanimità. Del Vecchio aveva il 100% dei diritti di voto di Delfin e deteneva direttamente il 25% del capitale, con un diritto di usufrutto sul restante 75%. Gli azionisti istituzionali internazionali sono stati decisivi anche per confermare Philippe Donnet in sella a Generali (di cui Mediobanca è primo azionista), altra battaglia che mister Luxottica ha combattuto negli ultimi anni. Al fianco di Francesco Gaetano Caltagirone ha provato a spodestare il manager francese dalla guida del Leone, ma l’esito delle votazioni ha premiato Nagel, grande sponsor di Donnet.
Un risultato che inevitabilmente peserà sulle ambizioni di Delfin e dello stesso Caltagirone (a sua volta azionista di Mediobanca) in vista dell’assemblea in programma tra poco più di un anno. Tornando al gruppo triestino, a questo punto aleggia un grande punto interrogativo: che ne sarà della partecipazione, attualmente pari al 9,82% del capitale? Anche in questo caso è difficile fare previsioni, data la molteplicità di soggetti coinvolti. «Rileviamo la prospettiva di una grande incertezza nel medio termine derivante dalla complessa struttura di eredità di Delfin, che nel tempo potrebbe risultare in overhang azionario», sottolinea un report di Morgan Staney. Stesso pericolo individuato da Intermonte. «A parte alcuni imprenditori italiani che potrebbero aumentare di alcuni milioni di euro le loro partecipazioni, (nessuno) ha mostrato un reale interesse ad entrare nel capitale e assorbire un'eventuale vendita delle azioni». Non è improbabile che alla fine si decida di ridurre o addirittura dismettere le partecipazioni. A quel punto le quote finirebbero sul mercato e all’orizzonte non si vedono molti imprenditori italiani liquidi e disposti a investimenti di questo rilievo». In Borsa i titoli di Piazzetta Cuccia e del Leone hanno perso rispettivamente il 3% e il 2,16%.
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