Davigo, il magistrato di Mani pulite a Trieste: «Trent’anni dopo la corruzione persiste. E i piani per prevenirla fanno sorridere»
«Responsabilità della politica ma anche di aziende che faticano ad accettare un sistema di legalità»

TRIESTE «Mani Pulite è stata un’occasione mancata». Piercamillo Davigo ci ha fatto il titolo di un suo libro, l’anno scorso, e lo ha ribadito giovedì all’auditorium del Museo Revoltella di Trieste, intervistato dal presidente dell’Ordine giornalisti Fvg Cristiano Degano.
Protagonista del pool di magistrati che nei primi anni ’90 svelò la corruzione che univa politica e impresa, già presidente di Anm e membro Csm, Davigo spiega, con amarezza, che quello che poteva essere l’inizio di un positivo rinnovamento non ha avuto seguito.
Riflessioni e bilanci trent’anni dopo. Cosa resta?
Appunto l’occasione che l’Italia ha perso per diventare un po’ più simile ai Paesi a cui vorrebbe assomigliare. Paesi dove le imprese hanno bilanci veritieri e non in larga parte falsificati e i partiti non hanno bilanci falsi o inesistenti.
Di chi è la responsabilità?
Essenzialmente della politica, ma anche di imprese che faticano ad accettare di vivere in un sistema di legalità, non rendendosi conto peraltro che un conto è prendere decisioni economiche sulla base di bilanci seri, un altro farlo su bilanci non attendibili. A quel punto diventa una partita di poker.
Siamo rimasti dentro Tangentopoli pure in questi trent’anni?
Non ci sono ragioni per ritenere che la corruzione sia scomparsa. Forse è scomparsa la corruzione amministrativa accertata, fatta su poche tangenti di valore elevatissimo versate forfettariamente ai principali partiti. Ma la corruzione decentrata, tante piccole tangenti a numerosi funzionari, c’è ancora.
Dove dilaga?
Nei piccoli comuni, dove tutti sanno tutto, è difficile trovarla. Ma il costo delle opere pubbliche in Italia continua a essere circa il doppio di quanto si riscontra all’estero. Vorrà pur dire qualcosa.
I controlli?
I piani per la prevenzione della corruzione fanno sorridere. Molte volte se li sono copiati ente per ente e impresa per impresa.
Nel 2016 lei incenerì il Codice appalti: «roba che non serve a niente». L’Anac, Autorità anticorruzione, non ha migliorato le cose?
Certo no.Il Codice appalti crea un sacco di problemi alle imprese per bene non fa né caldo né freddo a quelle per male.
Perché le cose vanno meglio all’estero?
Non si è ladri per questioni di razza. Contano i fattori culturali. Pensiamo di somigliare alla Francia ma i francesi credono di avere uno Stato da 1.500 anni,noi l’abbiamo da poco oltre 150. La differenza si vede.
C’è possibilità di cambiare?
Tutto cambia nella vita, il rischio è che possa andare peggio. Diventare un Paese serio non è un passo facile.
Potrebbe aiutare una riforma delle istituzioni?
Si dovrebbe partire ad esempio dalla regolamentazione dei partiti. Altrimenti gli eletti, come spesso hanno dichiarato, continueranno a pensare di poter fare uso personale dei soldi dei contribuenti.
Come giudica la linea dei populisti sulla corruzione?
Mi sono occupato di politica solo quando i politici rubavano. Ma posso dire che in questi anni la risposta della politica anche davanti a prove schiaccianti è rimasta la stessa: negare la verità. Il punto chiave è che in Italia il danno reputazionale non c’è. Quando uno viene preso a fare qualcosa che non fa di solito fa carriera.
La salute della magistratura?
La maggior parte dei magistrati lavorano seriamente. Come in tutte le famiglie ci sono le pecore nere. Ma noi quelle le cacciamo.
Riproduzione riservata © Il Piccolo