«D’Annunzio fascista? No, ma odiava le masse e contribuì ad affossare lo Stato liberale in Italia»

La lettura dello storico Raoul Pupo alla vigila del ciclo di incontri  intitolato “Un Fiume di storie” promosso a 100 anni dall’impresa

TRIESTE. «D’Annunzio non era fascista, ma è stato certamente uno degli assassini della democrazia in Italia». Per chi esercita la professione dello storico, come il professor Raoul Pupo, il giudizio sul Vate ha la serenità di una riflessione scientifica. Gli storici non amano gli anniversari - e in questo caso, aggiunge Pupo, non c’è niente da celebrare - ma il centenario dell’impresa di Fiume può essere l’occasione buona per andare a fondo a questioni che consentono di parlare di problemi più generali.

È nata così l’idea di organizzare, a partire da settembre, una serie di incontri per discutere di D’Annunzio e dell’epopea fiumana. Dietro il titolo “Un Fiume di storie: fatti, problemi e parole dell’impresa fiumana” si radunano numerosi soggetti: in primis l’Istituto regionale per la storia della Resistenza e la Biblioteca Statale di Trieste che ne sono i promotori, cui si sono associati il dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste, il comune di Ronchi e il Consorzio culturale del Monfalconese.

«Abbiamo pensato, spiega Pupo, di costruire un ampio ventaglio di proposte che comprende due mostre, una a Ronchi, che sarà seguita da Luca Manente e una seconda alla Biblioteca statale, curata da Fabio Todero e una serie di conferenze. Per ora abbiamo previsto undici incontri, che si svolgeranno alla Biblioteca statale, ma siccome i temi sono veramente tanti che abbiamo dovuto saltarne qualcuno, contiamo di aggiungere qualche altra conferenza all’inizio del prossimo anno».

Professore, come mai l’impresa di Fiume è così ricca di spunti?

È uno snodo del Novecento, una delle grandi imprese politiche del secolo scorso. Attraverso di essa si possono affrontare il significato il problema della vittoria mutilata, la situazione delle zone di confine, il Diciannovismo, per dire solo alcuni temi storiografici, senza contare che l’impresa stessa è stata un caleidoscopio di avvenimenti, di avventure tra le più strane e disparate.

Come i frati cappuccini che a un certo punto sull’onda libertaria chiedono l’addio al celibato.

Senza contare che la Chiesa si trovava in grossa difficoltà perché D’Annunzio si faceva ascoltare molto meglio del parroco: in fondo dicevano le stesse cose, e la gente non capiva più cosa dovevano seguire, se la religione di Dio o la religione della patria.

Lei ha visitato la mostra al Salone degli Incanti, “Disobbedisco”, curata da Giordano Bruno Guerri?

Sì, presenta cimeli favolosi, attira giustamente l’attenzione pubblico, suscita curiosità e interesse, ma con la nostra iniziativa vogliamo cogliere l’occasione per andare più a fondo.

In che senso?

Distinguendo tra rivisitazione e rivalutazione. L’impresa di Fiume merita una rivisitazione a distanza di un secolo, anche perché per molto tempo è stata interpretata in maniera poco corretta, semplicemente come introduzione al fascismo. Questo non è corretto, l’impresa dannunziana ha una propria autonomia, ha significati diversi. Tra l’altro con Mussolini ebbe rapporti abbastanza complicati: entrambi miravano a sfruttare l’altro, ma Mussolini era più bravo e mise nel sacco D’Annunzio. Il dannunzianesimo presenta queste componenti libertarie, anarchiche, di avanguardia, di rifiuto di qualsiasi regola. Pensiamo alla vita sopra le righe D’Annunzio stesso, ma anche a tanti legionari, Keller per esempio, che gira nudo per Fiume con un’aquila sulla spalla.

Lei nel suo libro “Fiume città di passione” ricorda come il ribellismo di quella generazione sia stato accostato addirittura al Sessantotto.

È un paragone ambivalente. È vero, ci sono le avanguardie che arrivano a Fiume e vogliono cambiare il mondo e lo stesso D’Annunzio è l’emblema dell’immaginazione al potere, ma il Sessantotto non è stato solo questo. E poi D’Annunzio è la massima espressione dell’Io mentre per il Sessantotto le parole d’ordine sono “noi” e “comunità”. Tutto questo fa parte della rivisitazione di quella esperienza.

E la rivalutazione?

Qui c’è un equivoco, che riguarda soprattutto il discorso pubblico, non tanto quello scientifico. D’Annunzio odiava la democrazia, il sistema rappresentativo, odiava le masse, il primo colpo di piccone allo Stato liberale in Italia lo ha dato lui; è stato l’inventore della mistica della patria e ha avvelenato l’amor di patria in imperialismo aggressivo.

E la Carta del Carnaro, citata come esempio di Costituzione democratica ed esposta alla mostra del Salone degli Incanti?

Ma non è mai stata applicata. In quel documento ci sono due componenti, quella sociale di De Ambris e gli interventi di d’Annunzio dove si parla dell’arte e della cultura. Sono intuizioni in un certo senso profetiche ma irrealizzate, d’altra parte D’Annunzio non era un pensatore sistematico, ma un poeta.

A cosa si deve l’attrazione che questo personaggio esercita ancora a distanza di cento anni?

I suoi contemporanei erano rapiti dal suo carisma, che gli ha permesso di essere il protagonista di un opera d’arte politica. Da qui è nato il fascino notevolissimo che ha esercitato anche dopo, che è spiegabile, mentre non lo è la sua celebrazione.

Da docente universitario, pensa che tra i giovani permanga questo fascino?

No, oggi i giovani hanno già difficoltà a distinguere tra D’Annunzio e Garibaldi. Però si divertono molto quando facciamo le prove di un discorso dannunziano. Prendiamo alcuni brani per far capire come funzionava quello stile politico, che allora era nuovo. Il capo che non faceva un comizio, ma interloquiva con la folla. I suoi discorsi erano difficilissimi come linguaggio, quelli che lo ascoltavano ne capivano la metà. Buona parte del suo fascino nasceva dal fatto che la gente non capiva quello che diceva. —

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