«Dalla tragedia alla Fondazione con la città sempre vicina»

La moglie del giornalista, presidente della Onlus: Marco era sgomento nel vedere la Jugoslavia mutata all’improvviso. Un monito per capire dove si può arrivare se si dà spazio a certe istanze 

TRIESTE Quando la tragedia - quella di Mostar, 25 anni fa - diventa occasione di ricostruzione. Oggi Daniela Schifani Corfini Luchetta, moglie di Marco Luchetta, presiede la Fondazione: uno dei fiori all’occhiello di Trieste, che si occupa di aiutare i bambini vittime di guerre e malattie, di tutto il mondo.

Il trailer del documentario dedicato a Miran Hrovatin


Presidente, come vive questo anniversario?

Sul piano personale riporta a galla delle emozioni determinanti, nella mia vita. La morte di Marco segna un prima e un dopo. La ricorrenza ha inoltre un valore particolare, in questo periodo. Non dimentichiamo come la Jugoslavia è cambiata all’improvviso, sotto i nostri occhi. Da terra dei campeggi e delle vacanze, quale era negli anni ’90, di colpo è divenuta teatro di guerra, di nazionalismi, di chiusure, razzismo. Marco aveva registrato tutto questo: ricordo il suo sgomento per come l’Europa fosse mutata così rapidamente, mentre sembrava dovesse andare da un'altra parte. Era appena caduto il muro di Berlino. Tutto ciò sia di monito, per capire dove si può arrivare quando si dà spazio a certe istanze.

Un riferimento all’attualità?

Sì. Sono molto spaventata dalla piega che per molti aspetti ha già preso la società. Speravo di lasciare ai miei figli un mondo aperto, solidale, con dei valori. Invece andiamo in direzione opposta. Nella nostra Europa ormai è accettato che delle persone muoiano senza che si faccia niente.

Vengono in mente i bambini espulsi negli scorsi giorni dal Cara di Castelnuovo, costretti a lasciare la scuola...

Violenza vera. Sorrido amaro quando si definisce esagerato il paragone tra la questione migranti e l’Olocausto. Certo: paragoni non vanno fatti. Ma non bisogna aspettare di rapportarsi al peggio assoluto, nella storia, per rendersi conto del male che è già in corso.

Marco era un giornalista. Sono tornati in auge gli attacchi alla stampa. Tanto che il Times ha scelto come “persona dell’anno” 2018 un gruppo di giornalisti minacciati per il proprio lavoro.

I giornalisti hanno grandi responsabilità, nella società e nel modo in cui presentano le notizie. È un mestiere che non dovrebbe essere svolto da chiunque. E che, se fatto bene, espone a rischi: quanti tuttora muoiono facendo il proprio dovere ne sono testimonianza.

Eppure la vostra Fondazione è riuscita a trasformare una tragedia in un fiore all’occhiello della città. In che modo?

Me lo chiedo spesso anch’io. Quando siamo partiti, dietro la storia di Zlatko mai avrei immaginato una crescita simile. Mi rispondo che è stato possibile grazie alla solidarietà della città: l’ho sempre sentita vicina, da quando Marco è morto a oggi. Gli aiuti continuano ad arrivare, le persone mi salutano per strada: la partecipazione è commovente.

Quali progetti avete in corso?

Siamo presenti nel tessuto sociale cittadino con il centro di raccolta di via Valdirivo, interamente gestito da volontari. Dal banco alimentare passano migliaia di persone. C’è poi la Microarea di Montebello, che appartiene all’intera città. E ci sono, ovviamente, i bambini. Le storie arrivano da tutto il mondo. Bimbi siriani, iracheni, yazidi, della striscia di Gaza. Ma anche dal sud-est asiatico, dal Sudamerica: dai Paesi poveri del pianeta, insomma.

In che modo li aiutate?

Il nostro referente primo è l’Irccs Burlo Garofolo, che screma le domande. Ha senso fare arrivare qui un bambino se c’è speranza di cura. Se la risposta è positiva, dopo l’analisi della cartella clinica e dopo i preventivi, allora ci attiviamo: vanno fatti visti, passaporti, biglietti aerei. Nonché le cure, costosissime. Le due case di accoglienza sono sempre piene; finora da noi sono passate più di 1500 persone, contando anche le famiglie. Ci siamo guadagnati un nome sul campo. Abbiamo infine un progetto Sprar attivo a Sgonico, cogestito con Ics: ci sono molti bimbi malati figli di rifugiati; ma quella è un'altra storia. —


 

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