Dalla frontiera di nessuno in fuga verso l’Europa
POLYKASTRO. Seduti attorno ad un fuoco a legna improvvisato nella sera, Molly e Kyle aspettano in silenzio l’arrivo del prossimo autobus di profughi. Da qualche giorno, questi due volontari americani hanno lasciato l’isola di Lesbo - dove distribuivano cibo e vestiti da inizio gennaio - per trasferirsi alla stazione di servizio di Polykastro, lungo l’autostrada che da Salonicco porta a Skopje, in Macedonia. Sono due dei tanti attivisti che a partire da febbraio hanno fatto di quest’area di sosta il proprio campo base, dopo che migliaia di rifugiati in arrivo da Atene vi erano rimasti bloccati per diversi giorni in attesa di raggiungere il centro di accoglienza greco di Idomeni e in seguito quello macedone di Gevgelija. Ora, attorno a Molly e Kyle sono state innalzate più di cinquanta tende dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e di Medici senza frontiere, riempiendo tutto il piazzale dell’autogrill locale, ma senza che, per questo, le autorità greche accettino di parlare di «un nuovo campo profughi» a Polykastro.
«Si tratta semplicemente di un sito di transito temporaneo, che ci permette di garantire alle persone delle condizioni dignitose durante la sosta degli autobus», si affretta a spiegare Alexandros G. Voulgaris, il responsabile Onu del campo profughi di Idomeni. «Abbiamo trovato un accordo settimanale con i gestori della stazione di benzina», prosegue il funzionario dell’Unhcr, secondo cui «solo il governo di Atene può decidere di rendere più stabile la struttura, prendendo in gestione il suolo a fini di utilità pubblica».
Le 51 tende che Voulgaris ha deciso di posizionare a 25 km dalla frontiera greco-macedone possono accogliere poco meno di mille persone ed è difficile pensare che non siano state montate per restare a lungo. «Tutti gli scenari sono possibili», risponde Voulgaris alla domanda se la Grecia si stia preparando de facto ad un’imminente chiusura del confine macedone. «Il parere dell’Unhcr è che Atene debba essere pronta in ogni caso ad accogliere e a fornire assistenza a queste persone», conclude il rappresentante Onu.
Al campo di Idomeni, l’ultima tappa greca per i rifugiati sulla rotta dei Balcani, l’eventualità di un rallentamento del flusso, o addirittura di una chiusura al confine macedone, genera un senso di apprensione tra gli impiegati del centro. «Polykastro serve ad evitare un collasso di Idomeni, nel caso in cui Skopje introduca dei nuovi criteri di controllo o restringa il numero di ingressi», ammette una dipendente. Alcuni volontari, come José Fernandez dell’associazione spagnola SOS Remar, stanno già pensando di concentrare sul territorio greco la maggior parte dei propri sforzi.
«A breve apriremo una cucina mobile ad Atene», annuncia Fernandez, che al campo di Idomeni si occupa di distribuire minestra e tè caldo. Per il momento, da Idomeni a Gevgelija, il transito è concesso a chi viene da Siria, Irak e Afghanistan ed è diretto in Germania o in Austria, ovvero tra le mille e le 2mila persone al giorno. Ma i controlli potrebbero presto essere rafforzati. Dal lato macedone della frontiera, infatti, qualche azione in questo senso ha già preso vita. Questa settimana, le autorità di Skopje hanno approvato la costruzione di una seconda barriera di filo spinato parallela alla prima, «un regalo del governo ungherese», commenta Jasmin Redzepi, fondatore dell’Ong macedone Legis. Oltre al raddoppiamento del muro su un totale di 37 km, per impedire i passaggi non autorizzati, la Macedonia ha anche ricevuto nei giorni scorsi il supporto logistico del gruppo di Višegrad e di altri paesi dei Balcani.
Al campo di Gevgelija, qualche poliziotto slovacco assiste dunque all’ingresso dei rifugiati sul treno diretto a Tabanovce e al confine serbo, mentre i colleghi croati, «in missione per due settimane», aiutano i macedoni nel vaglio dei documenti rilasciati da Atene. L’ultima misura di cui si mormora al confine greco-macedone è la possibilità che vengano a breve richiesti ai migranti anche i documenti personali del paese di origine, in modo da provare la loro effettiva nazionalità.
Se dovesse essere effettivamente introdotta, questa nuova condizione svilupperebbe da un lato il già esistente mercato dei documenti, dall’altro aumenterebbe il numero dei “respinti”, quei migranti che vengono ricondotti dalla Macedonia ad Atene e che poi ritentano, a piedi, la traversata della frontiera.
Una frontiera che secondo un diplomatico europeo di stanza a Skopje è ormai diventata “una fisarmonica”.
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