Dal sangue la rivoluzione delle donne

All’inizio del Novecento il ruolo sociale e familiare delle donne stava profondamente mutando, come appariva da numerosi articoli e dibattiti apparsi sui giornali del tempo. Sibilla Aleramo, con “Una donna”, ebbe il coraggio di denunciar senza mezze misure il disagio anche psicologico cui erano costrette, e non era la sola. Quando scoppiò la Grande guerra i movimenti femministi, tendenzialmente pacifisti, intuirono presto che il conflitto poteva rappresentare un'occasione irripetibile, nella sua drammaticità, per riposizionare finalmente i rapporti di genere. La scrittrice triestina Willy Dias, sosteneva a ragione che quella guerra aveva fatto per il movimento d'emancipazione molto più che un esercito di suffragette. Lo spostamento nelle zone di guerra degli uomini costrinse infatti le loro donne, e non senza ostilità e diffidenza, a sostituirsi ai pater familias, sia in casa che nei luoghi di lavoro, assumendo incarichi prima preclusi.
Inizia così quel percorso complesso che caratterizza ancor oggi l'impegno femminile, sempre scisso, proficuamente ma faticosamente, tra pubblico e privato. Ma, come voleva il ministro Antonio Salandra, «chi alla Patria non dà il braccio deve dare la mente, i beni, il cuore, le rinunzie, i sacrifici». E le donne diedero, forse più di quanto veniva loro richiesto, se alcune si spinsero addirittura a domandare al governo di permettere la mobilitazione femminile. Ovviamente la proposta fu bocciata, ma non tutte si scoraggiarono, tanto che si arruolarono e furono scoperte molto più tardi di quanto fosse logico aspettarsi: così fecero Victoria Savs attiva sulle Dolomiti di Sesto, decorata con medaglia di bronzo, e Maria Amalia von Hauler, distintasi per merito nella zona di Longarone, decorata con medaglia d'argento nel 1916 e con altre medaglie d'oro nel 1917. Smascherata nella sua vera identità fu spedita come infermiera a Opicina nell'ospedale da campo 407, ma ottenne di andare a Tolmino, zona militarmente più calda.
Non era la sola presenza femminile, ovviamente, perché molte nelle retrovie del fronte ci andarono comunque, rafforzando una delle immagini più rappresentative della guerra, quella dell’infermiera volontaria della Croce Rossa. Le crocerossine provenivano da diversi ceti sociali, e non poche appartenevano alla nobiltà e all’alta borghesia. Nel 1915 il gruppo contava già 4.000 presenze, professionalmente specializzate, attive sia negli ospedali veri e propri che in quelli ricavati in luoghi di fortuna, i treni o gli spazi ampi delle stazioni ferroviarie. Invece che lodate, per la promiscuità cui il loro operare le portava e per l'intimità coi martoriati corpi maschili, venivano a volte criticate perché attentavano al decoro che la donna doveva mantenere.
Fecero davvero l’impossibile per lenire il dolore che gli uomini avevano provocato, tanto che l'abnegazione di alcune di loro divenne proverbiale: Vera Brittain si adoperò anche per la difesa dei più deboli e delle donne, mentre Edith Louisa Cavell pensò di mettere a disposizione di tante la sua esperienza fondando e dirigendo la rivista specializzata “L’infermiere” il cui motto è emblematico: «Non posso smettere di lavorare, se ci sono ancora così tante vite da salvare».
Altre restarono a casa, ma non inattive, visto che non solo aiutavano le vedove e le famiglie dei soldati al fronte, ma svolgevano anche attività di supporto con la preparazione di bende e la raccolta di lana per confezionare indumenti caldi per i soldati. E cucinavano per le lunghe colonne dei fanti in transito, o per i poveri e gli orfani, tenendo così vivi i collegamenti tra familiari e combattenti. Erano i primi passi di un’attività che nel secondo conflitto mondiale sarà fondamentale per la vittoria antifascista, quella delle staffette femminili che, mentre portavano da mangiare o provvedevano alla biancheria pulita dei partigiani, incrociavano tra loro notizie ed indicazioni militari. Al loro valore dobbiamo in larga misura, a guerra conclusa, la concessione del voto alle donne.
La vera novità fu però il loro massiccio ingresso come manodopera nelle fabbriche che il decollo industriale italiano aveva reso competitive sui mercati europei. In tempo di guerra, oltre a mantenere la produzione abituale, le officine dovevano produrre anche tutto ciò che serviva al conflitto, dalle munizioni alle divise, dai mezzi di trasporto alle gamelle. La guerra era una benedizione per gli imprenditori, una tragedia per i soldati e le loro famiglie. Le donne assunte negli stabilimenti crebbero in misura rilevante nei quattro anni del conflitto, soprattutto nel settore tessile, che si avvaleva anche di lavoranti a domicilio, pagate con stipendi da fame. Ma anche le campagne dovevano essere lavorate, in un torno d’anni in cui fame e carestia si fecero ben sentire. E così mogli, figlie, sorelle o madri dei soldati al fronte impararono a usare macchine agricole e a piegarsi sui solchi per raccattare ciò che stava diventando un bene sempre più raro, il cibo.
L’opinione pubblica rimaneva tuttavia diffidente nei confronti del lavoro femminile che era ritenuto più adatto a maschi, per lo sforzo fisico che implicava. Lo scetticismo non diminuiva neppure di fronte all'immagine stereotipata di una professionalità più accetta, la “camicetta bianca”, ovvero l'impiegata che intanto entrava a far parte non solo dei servizi amministrativi, ma anche dei trasporti pubblici. Ovviamente le donne non si lasciarono intimidire, anche perché l’intero apparato produttivo di una nazione, e il suo indotto, era in buona parte gestito da loro. Al di là dei pregiudizi, potevano piuttosto verificare gli squilibri del sistema sociale nel suo complesso e, da un’angolatura assolutamente pragmatica, il loro doppio sfruttamento se, pur protagoniste del comparto produttivo, venivano sottopagate rispetto ai colleghi maschi. Come si sa, non tutti gli uomini andarono al fronte, altri erano davvero ritenuti più utili in posizioni di responsabilità, molti con la guerra addirittura specularono e si arricchirono. A nessuno sfuggiva l’esistenza di situazioni non solo incresciose, ma spesso profondamente ingiuste. E qui la differenza di genere giocò a favore delle donne, che potevano protestare e addirittura scioperare per il rispetto dei propri diritti, sapendo di rischiare come pena solo una multa più o meno pesante. Agli uomini invece sarebbe toccata una punizione più dura, l’invio al fronte. Giocoforza che le lavoratrici si fecero sentire, aderendo in percentuale altissima sia agli scioperi industriali che alle proteste contadine, e imparando nuovi linguaggi utili ad avvicinarsi a competenze prima impensabili.
Ma al di là del problema sindacale, esisteva quello esistenziale. Se lo stipendio non bastava, pagate come erano metà degli uomini, e se dovevano pure mantenere se stesse e i loro figli, parecchie si prostituivano, magari per un tempo limitato, contribuendo così al moltiplicarsi delle Case di Tolleranza, luoghi riconosciuti dalla legge. E nasceva poi una figura nuova, creata ed alimentata dalla guerra, quella della profuga, in fuga dalle case distrutte dai bombardamenti, estranea ai nuovi gruppi dove cercava di inserirsi e alla ricerca di una stabilità non solo economica, ma anche affettiva.
La Grande guerra ha rivoluzionato davvero abitudini e mentalità, come si può notare anche in quello che è lo specchio femminile per eccellenza, la moda. Per far fronte alle esigenze di una vita intensa, per essere più libere di muoversi nei luoghi di lavoro, e per ragioni di economia, le signore avevano cominciato a vestirsi più semplicemente. Coco Chanel, sensibile come poche alle richieste dei tempi nuovi, accorciava le gonne, rendeva morbide le linee, toglieva orpelli, rivoluzionava insomma l’immagine femminile, ponendo le basi, in tempo di guerra, di una maison ancor oggi commercialmente all’avanguardia. Gli spostamenti continui, che mezzi di locomozione sempre più veloci permettevano, e l’uso di strumenti di trasmissione perfezionati dalle necessità militari rendevano più facile a Margaretha Gertruda Zelle, alias Matha Hari, ex danzatrice dal fascino un po' appannato, di mantenere alto il proprio tenore di vita insinuandosi nel mondo degli agenti segreti, imparando a comunicare in codice, diventando insomma la spia femminile forse più famosa di tutti i tempi, intercettata infine dai francesi e giustiziata nel 1917.
La tecnica aveva reso più maneggevoli anche le macchine fotografiche con cui i corrispondenti mostravano i vari aspetti della guerra. Edina Clam Gallas, crocerossina, le usava a Forgaria per documentare la vita e l’architettura di Villa Pasquali, adibita dal 1915 ad ospedale militare del Sovrano Ordine di Malta. Ma la donna che più ha conosciuto da vicino la guerra è stata Alice Shalek, giornalista e fotografa, immortalata poi al Heeresgescgichtlichen Museum di Vienna. Ha scritto reportages di guerra sia sul fronte del Tirolo che dell’Isonzo. “Isonzofront”, recentemente ripubblicato dall'Editrice libraria Goriziana, che nel 1977 l’aveva fatto tradurre, è il frutto di cinque mesi di osservazione, condotta nel 1916 in prima persona lungo l'intero fronte dell'Isonzo a partire dalle prime linee per poi salire sul Sabotino, il San Michele, il Podgora, il monte Nero. Alice Shalek ha potuto parlare con soldati, ufficiali, generali, e anche con chi la guerra l’ha vissuta nelle retrovie.
Karl Kraus l’attaccò violentemente, sia per il suo stile che per il suo atteggiamento politico, decisamente filoasburgico. Ma al di là della sua prosa a volte davvero retorica, ciò che conta è lo sforzo di farsi memoria storica ed umana di ciò che è stato il conflitto, convinta come era che tutti, austriaci o italiani che fossero, erano eroi. Proprio perché era entrata nelle trincee, poteva capire che in quella situazione a contare era pure il gesto del singolo, chiamato a conquistare anche solo pochi metri di terra petrosa e a segnare così in qualche modo, e in prima persona, le sorti della battaglia. Finita la guerra, e valutato l'apporto offerto dal lavoro femminile, nel 1919 venne proposta una riforma con la quale si abrogava finalmente l’istituto dell’autorizzazione maritale e si permetteva anche alle donne di esercitare professioni pubbliche.
Non proprio tutte, perché si escludevano quelle interne alla magistratura, alla diplomazia e alla polizia. Ma la corsa emancipazionista per un lungo periodo si bloccò qui, nel festoso e burrascoso periodo della pace, quando i reduci tornarono e molte persero il posto di lavoro. Ma non era questo, ovviamente, il solo problema. Ci volle, purtroppo, un'altra guerra per ripartire e questa volta, speriamo, senza essere fermate.
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