Dal Pisciolòn allo Storto fino al rio Ospo La resistenza dei fiumiciattoli dai nomi buffi

IL REPORTAGE
Cesare Tarabocchia siede davanti alla “sala di comando”, nella sua casa di Santa Barbara. «Muggia è piena di torrenti e fiumiciattoli, solo che spesso non si vedono» spiega mentre scorre il mouse da uno schermo all’altro. La differenza con la periferia triestina, l’area muggesana la evidenzia nei pendii che scivolano dolci verso il mare e dalle strette valli scavate dai corsi d’acqua. Cesare, anima orgogliosamente lussignana, sovrappone i file delle mappe della provincia, evidenzia solamente i fiumi ed ecco che il territorio si compone di linee azzurre, sinuose e riconoscibili. È il potere di guardare le cose dall’alto che trasforma ciò che non si vede in liquidi manifesti. «Andando a piedi si può scovare i torrenti, quelli antichi» racconta. Cesare è uno degli ultimi cartografi appassionati, di quelli che hanno fuso la malanconia della tradizione con l’eccitazione per la modernità.
Muggia possiede un territorio diverso da Trieste; geologicamente già Istria, anche nei torrenti emergono nomi morbidi, di quelli che fanno strappare un sorriso agli abitanti o manifestare le esposizioni autoironiche del carattere. Pisciolòn è uno di questi, forse il torrente più importante o quello più conosciuto.
«In verità – racconta Manuela Blaschic, insegnante della scuola media Nazario Sauro – ce ne sono molti altri: il Farnei e il rio Storto, ad esempio, sono ancora oggi rappresentazioni di come un torrente si riesce a conservare». Manuela ormai da oltre quindici anni porta avanti un progetto, in collaborazione con il tratteggio preciso delle mappe di Tarabocchia, che coinvolge proprio le scuole: «Portiamo gli studenti perché imparino a conoscere i flussi d’acqua del territorio dove sono nati: solo così possiamo pensare di salvarli» afferma Manuela.
Prima del campo sportivo Zaccaria chiunque a Muggia sa che a destra inizia località Mulini. Una via lo testimonia chiaramente. Da lì in poi, andando sempre diritti, si incontra il rio Fugnan, dove Manuela e i suoi studenti, assieme all’instancabile guardia forestale Percovich, ammirano ciò che resiste ancora. «Peschiamo con una piccola retina – dice Manuela – e poi osserviamo le varie specie che troviamo; un anno abbiamo persino raccolto un Austrapotamobius femmina, che poi abbiamo naturalmente liberato». Traduzione vuole che essa sia una specie di gambero, simile a quelli che sono sopravvissuti al disturbo antropico causato dalla pulizia dell’alveo del Rosandra, qualche anno fa.
Immaginando la curiosità dei bambini ci si può travestire da piccoli esploratori e andare alla ricerca del tempo perduto: «Una volta mi è capitato di parlare con una signora che ricordava perfettamente di quando nel Fugnan si trovavano le anguille». Vivevano e giungevano qui fino a quando non venne deciso l’interramento parziale del torrente. «Non ricordo quando fosse, credo tra gli anni Cinquanta e Sessanta» racconta Blaschic.
Il progetto dura ancora oggi e la mappatura sullo stato dei torrenti diventa così una testimonianza ineccepibile sulle modalità di resistenza attuali. «I ragazzini hanno portato a scuola le fotografie dei loro nonni, di quando i torrenti scorrevano con maggiore forza, per poi confrontarle e sovrapporle a quelle di oggi». Cambiano i colori, si passa dal bianco e nero all’alta definizione, alle istantanee realizzate grazie a telefoni cellulari dalla telecamera ultraprecisa. Non cambia la suggestione, il romanzo dei fiumi delle periferie, nei racconti ormai sepolti.
Manuela parla anche degli altri patok, quelli che scorrono in zone che nessuno oserebbe immaginare. «Dietro al centro commerciale di Montedoro c’è un piccolo torrente, che viene chiamato il torrente del diavolo. Anche nella zona delle Noghere esiste un fiumiciattolo. Qui ci arriviamo solitamente a piedi, camminando dentro bosco Vignan e poi giù, verso l’Ospo».
L’Ospo rappresentava un tempo il confine tra la Serenissima e l’Impero. Non lontano da qui, ad inizio Novecento ci fu una sciagura paragonabile al “tram de Opcina che se ga ribaltà”. Ma il rio Ospo, nelle cronache quotidiane, ormai rimane famoso per il problema delle nutrie, nella solita “guerriglia” tra gli animalisti e chi invece considera il loro aumento un vero problema per l’ecosistema. «In rio Ospo ormai credo non ci sia quasi nient’altro» conclude Manuela Blaschic.
Ci sono torrenti che mantengono il loro ruolo, nelle pratiche quotidiane, nei dibattiti attuali. Ce ne sono altri il cui significato si perde, travisato e modificato definitivamente. Il fatto che gli studenti della Nazario Sauro imparino presto a guardare con simpatia alle acque vicine a casa, diventa un tassello importante. Che giochino poi ad Huckleberry Finn o al bandito Colarich, poco importa. —
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