Dal ministro ai barbari in quota i centocinquant’anni del Cai
di Claudio Ernè
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In cima al Monviso centocinquanta anni fa. Il 12 agosto 1863 Quintino Sella, ministro e deputato del Regno, dà vita assieme a quattro amici, al Club alpino italiano. È un’associazione elitaria che si rifà ad analoghe iniziative avviate in altri Paesi europei. Gli inglesi hanno fondato il loro Alpine Club nel 1857, gli austriaci nel 1862, gli svizzeri poco dopo. I francesi lo faranno nel 1864. Quintino Sella spiega poche settimane più tardi – esattamente il 23 ottobre 1863, data ufficiale della fondazione del Cai - quali sono le mete che l’associazione si ripromette di raggiungere: «Mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato a dare piglio al bastone ferrato e a procurarsi le maschie soddisfazioni di solcare in varie direzioni e fino alle più alte cime queste meravigliose Alpi che ogni popolo ci invidia. Col crescere di questo gusto, crescerà pure l’amore per le scienze naturali».
Sono parole profetiche, mai smentite. Nel primo anno di vita il Club alpino accoglie nella sua sede di Torino poco più di trecento soci. Nel 1877 gli iscritti raggiungono quota 3500 e sono in prevalenza benestanti o possidenti piemontesi. Oggi i soci sono più di 300 mila, appartengono a tutti gli strati sociali della popolazione e il Club alpino ha sezioni sparse in ogni regione del Paese, Sardegna e Sicilia comprese. È un successo travolgente che si lega alla gestione di 433 rifugi, 244 bivacchi, 65 capanne e 15 ricoveri. In totale i posti letto sono 23.500. Lo scopo di queste strutture è duplice: in primo luogo forniscono la base di partenza o il punto d’appoggio per ascensioni o traversate. In seconda battuta offrono agli alpinisti, in caso d’improvviso maltempo, un punto sicuro per ripararsi.
Ma non basta. Il Club alpino, specie negli ultimi decenni, ha puntato molto sulla diffusione della “cultura della sicurezza” in montagna, fondando scuole di alpinismo, scialpinismo e speleologia, organizzando corsi per escursionisti e stage di aggiornamento per i propri istruttori e accompagnatori. Da tempo, infatti, la montagna subisce un massiccio assalto estivo e invernale: in centinaia di migliaia - molti dei quali impreparati e di solito mal equipaggiati - salgono in quota, fidando nel cielo terso e nel sole alto. Poi il tempo cambia, le forze mancano e la gita si trasforma in incubo. Negli ultimi anni, il Corpo nazionale soccorso alpino del Cai ha compiuto di media nei dodici mesi più di cinquemila interventi, soccorrendo 25 mila persone in difficoltà. Le cifre di questo fenomeno sono drammatiche: sui nostri monti ogni anno si contano tra i 300 e i 400 morti, più di 100 dispersi e almeno tremila feriti. Ecco perché prima di affrontare escursioni, vie ferrate o scalate, è necessario frequentare corsi e stage. Ne va della vita anche nei percorsi apparentemente più semplici: a livello statistico il maggior numero di incidenti montani avviene su prati o sentieri. Non in parete o su ghiaccio.
Per celebrare i 150 anni di ininterrotta attività il vertice del Cai, che oggi ha sede a Milano in via Petrello 127, ha redatto un denso programma di manifestazioni: ascese in montagna, concerti in quota e nei rifugi, mostre, proiezioni, iniziative editoriali che coinvolgono e coinvolgeranno nei prossimi mesi tutto il Paese. In questo programma sono inserite le due Sezioni triestine del Cai: la Società alpina delle Giulie, nata il 23 marzo 1883 come Società degli alpinisti triestini e la XXX ottobre costituita il 24 novembre 1918 al ricreatorio Pitteri, nel cuore del rione popolare di San Giacomo. È stata ammessa al Cai appena nel 1940 come sottosezione dell’Alpina, dopo aver costretto alle dimissioni il presidente, inviso alle autorità del regime fascista. L’adesione come sezione è avvenuta appena nel 1947, presidente Diego Viatori.
Tra le celebrazioni per i 150 anni va citata anche la rivisitazione del contributo che il Club alpino diede alla Grande guerra. L’allora presidente Lorenzo Camerano lanciò un proclama agli alpinisti in cui, tra l’altro, affermava: «La Patria chiama tutti i suoi fieri figli al cimento. Accorriamo con cuore acceso di sacro amore per la Grande Madre e con fede incrollabile nei suoi alti destini e nella sua vittoria, a dare a essa tutta l’opera nostra e il nostro sangue».
Duemila soci del Cai si arruolarono volontari e molti di più lasciarono le loro vite nella “guerra bianca” combattuta sulle Alpi spesso oltre i tremila metri di quota. Valanghe, gelo estremo, congelamenti.
L’Alpina delle Giulie, che raccoglieva tra i soci molti irredentisti, così come la Ginnastica triestina, contribuì allo sforzo bellico italiano ancor prima dello scoppio della guerra, operando in territorio austriaco ma fornendo all’esercito italiano una dettagliata “Guida dei dintorni di Trieste”. Strade, quote altimetriche, ferrovie, stazioni, acquedotti, linee marittime, fabbriche, grotte col relativo rilievo: un prezioso baedeker per gli ufficiali del re Vittorio Emanuele. La prefazione era dello scrittore Silvio Benco, firma di punta del quotidiano “Il Piccolo”.
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