Dal Bengodi all’indigenza, i rimborsi “pazzi” ai partiti
TRIESTE. Dal paese di Bengodi allo zero assoluto in vent’anni. Dalle vacche grasse della Prima Repubblica a quelle grassissime dell’era Illy e Tondo fino alle vacche magre di Debora Serracchiani. E, qualora il referendum di ottobre confermasse la riforma costituzionale del governo, nessuna vacca resterà nel recinto. È la storia dei finanziamenti ai gruppi politici dei consigli regionali: in Friuli Venezia Giulia, dopo i fasti del passato, le risorse sono andate incontro nel 2013 al taglio del 90% e sono ora destinate alla totale cancellazione, perché così prevede la legge Boschi. Come tutta la riforma del Titolo V, la misura non si applicherà direttamente alle Regioni speciali, ma la via è segnata: la notizia non è stata presa bene in Consiglio regionale ma il governo tira dritto e trova l’appoggio della giunta Serracchiani.
Il costo dei partiti è da decenni cavallo di mille battaglie e i rimborsi ai gruppi regionali non fanno eccezione. Considerati la norma nella Prima Repubblica, quei rimborsi agitarono l’esordio della presidenza Illy e monopolizzarono poi la scena durante l’inchiesta “spese pazze” che provocò la decapitazione della maggior parte della classe dirigente della passata legislatura. Le ultime elezioni si tennero in un clima di polemiche al vetriolo e, per arginare la protesta, la giunta Serracchiani si produsse subito in un taglio draconiano dei trasferimenti ai gruppi.
A Palazzo, anche se adesso nessuno lo dice apertamente, l’inizio della “degenerazione” è individuato nella prima fase del mandato di Riccardo Illy, quando i fondi dei gruppi vennero triplicati e si cambiò il criterio d’assegnazione. Prima il danaro era gestito - i nostalgici dicono bene, anche se non mancarono utilizzi opachi - interamente dalla segreteria del gruppo: il controllo era centralizzato e la spesa indirizzata sull’attività politica. Nel 2003 la giunta Illy scelse l’aumento notevole delle dotazioni, figlio delle pressioni delle opposizioni dopo la scelta dell’elezione diretta del presidente della Regione. La crisi economica era lontana e i partiti ottennero l’incremento delle risorse, a bilanciare il ruolo sempre più centrale dell’esecutivo: una linea seguita in quella fase da molte Regioni.
La variabile impazzita va ricercata nella scelta di permettere ai gruppi di abbandonare la gestione centralizzata delle spese e ripartire i finanziamenti direttamente fra i consiglieri. Dopo il 2003, di anno in anno, le ricevute presentate per il rimborso furono sempre meno connesse all’attività politica. Il vaso di Pandora venne scoperchiato dall’inchiesta “spese pazze”, conclusasi dal punto di vista legale in una mezza bolla di sapone, perché l’inopportunità di certi comportamenti non corrispondeva a reato, a causa di una legge troppo generica sui costi ammissibili. E così i 22 indagati della “rimborsopoli” hanno visto la propria avventura finire con 18 assoluzioni, tre patteggiamenti e un rinvio a giudizio. Resta ovviamente il giudizio morale, per chi ha usato senza vergogna soldi pubblici per comprare le gomme dell’auto, tagliarsi i capelli, acquistare fiori e bottiglie, mangiare pesce e gelati, viaggiare in località di lusso e invitare a cena gli amici.
Da qui il giro di vite voluto da Serracchiani, con l’abolizione dei vitalizi, il contenimento delle indennità di carica e il taglio di nove decimi ai gruppi consiliari. L’intervento ha significato un dimagrimento radicale: gli oltre 3 milioni del 2012 si sono ridotti a poco più di 300mila euro. L’anno scorso il Pd ha rendicontato ad esempio 193mila euro contro i 603mila del 2012: una differenza notevole, tanto più che all’epoca i dem erano all’opposizione. Durissimo il colpo per Forza Italia, passata dagli 816mila euro dei tempi della giunta Tondo ai 55mila incassati nel 2015. Non esultano i Cittadini con 65mila euro, il M5s con 48mila, Ar con 25mila e Sel con 15mila, stessa cifra del Ncd. Cifre stabilite in base al numero degli eletti e destinate a spese di funzionamento, collaborazioni, consulenze, propaganda, comunicazione istituzionale e acquisto di automezzi. Costi che non riguardano invece il personale dei gruppi, assunto per il quinquennio nell’organico dei dipendenti della Regione.
Tutto questo non sarà più sostenibile dopo il referendum. L’organizzazione dei gruppi, dicono a Palazzo, se vincessero i “sì”, finirebbe in ginocchio: salterebbero contratti di collaborazione e consulenza, spese di rappresentanza e trasferta, abbonamenti a giornali, convegni e incontri pubblici. Perfino le uscite per cancelleria, posta, utenze telefoniche e sito web non sarebbero sopportabili. La presidenza del Consiglio regionale e gli uffici di piazza Oberdan, di fronte a uno scenario potenzialmente da incubo, hanno già cominciato a muoversi, cercando soluzioni per arrivare in fondo alla legislatura e ragionando nella Conferenza delle Regioni su possibili azioni di lobby nei confronti del governo.
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