Dai documenti alla pulizia etnica: le radici dell’orrore di Srebrenica

Il Memorial Center di Potocari lancia i “Genocide Papers”, un portale che contiene trascrizioni e documenti ufficiali già pubblici ma di difficile accesso prodotti dalle autorità politiche serbo-bosniache fra il 1991 e il 1996 

BELGRADO Un genocidio non nasce da un giorno all’altro. Il terreno va dissodato per tempo, per far germogliare i semi dell’odio verso l’altro. È quanto accadde in Bosnia, dove le leadership politiche serbo-bosniache già dal 1991 iniziarono a gettare le basi per la mattanza di Srebrenica, avvenuta nel luglio 1995, e in generale per la pulizia etnica contro i “non serbi” della Bosnia, l’assedio di Sarajevo, i massacri più gravi dal tempo del Secondo conflitto mondiale.

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A confermarlo sono i “Genocide Papers” (Transkripti Genocida), un nuovo progetto del Memorial Center di Potocari, l’istituzione pubblica che cura il cimitero in cui sono seppellite migliaia delle vittime dello sterminio e ne custodisce la memoria. Il Memorial ha ora finanziato in autonomia e realizzato appunto “Genocide Papers”, un portale – a breve accessibile – che contiene trascrizioni e documenti ufficiali, già pubblici ma difficilmente reperibili e consultabili se non inaccessibili, prodotti dalle autorità politiche serbo-bosniache tra il 1991 e il 1996. L’obiettivo dell’operazione è quello di dimostrare come, già prima delle azioni dei gruppi comandati dal generale Ratko Mladić, le alte sfere politiche dei serbi di Bosnia avessero già pianificato l’annientamento dei bosgnacchi musulmani e la pulizia etnica.

Lo confermano, ad esempio, trascrizioni dei lavori dell’Assemblea politica serbo-bosniaca, come quelle del maggio 1992, quando si stabilirono «gli obiettivi strategici del popolo serbo in Bosnia-Erzergovina». Il primo era «la demarcazione» del territorio rispetto alle «altre due comunità nazionali», ossia croati e bosgnacchi. Il secondo consisteva nella «eliminazione della Drina come confine tra i due Stati serbi», ossia la “Serbia proper” e i territori serbi in Bosnia, di fatto creando un unicum territoriale. Il terzo era il piano per «dividere la città di Sarajevo in una parte serba e in una musulmana con la creazione in ognuna delle due parti di un efficace sistema di governo»; infine «lo sbocco al mare della Republika Srpska».

Tanti, fra i documenti, quelli che descrivono l’«altro» come nemico da liquidare, ostacolo da abbattere. «Bene signori, possiamo ora stabilire che i musulmani come popolo sono una creazione comunista», disse nel 1993 il presidente del parlamentino serbo-bosniaco, Momcilo Krajisnik, poi condannato per crimini di guerra. Serbi che non possono «accettare una nazione artificiale» perché «consideriamo i musulmani come una setta, un gruppo di provenienza turca. C’è qualcosa da aggiungere? Signori, adottiamo questa risoluzione all’unanimità», perorava Krajisnik. Sempre nel 1993 il deputato Savo Knezević - si legge nei “Genocide Paper” - si spinse a definire i bosgnacchi «maomettani di provenienza turca e niente di più, non veri membri dell’Islam, ma categoria inferiore» che è impossibile «rendere serbi». Pochi mesi dopo, ecco il politico serbo-bosniaco Vojo Kupresanin: «Suggerisco di espellere i musulmani, nessun Paese europeo, nessuna nazione al mondo li riconoscerà», disse definendo la Bosnia «Paese serbo».

Pesanti anche le parole del “leader maximo” dei serbo-bosniaci, Radovan Karadzić, che fu fra gli artefici del genocidio e perciò è stato condannato dalla giustizia internazionale. «Non vogliamo accettare l’esistenza di uno Stato islamico in Europa» e perciò «siamo stati sacrificati» dalla comunità internazionale, disse Karadzić a inizio 1995, pochi mesi prima di Srebrenica. Karadzić parlò anche dopo i massacri del luglio 1995, giustificandoli. «Come comandante supremo, difendo i piani per Zepa e Srebrenica»; senza la “conquista” della “safe area”, sicura solo sulla carta, «avremmo perso la guerra». Ammissibile allora «consigliare» alle truppe serbo-bosniache di «andare direttamente» su Srebrenica e poi «dare la caccia ai turchi nei boschi. Ho approvato questi ordini radicali e non me ne pento».

I materiali d’archivio – tra cui anche i discorsi dell’attuale membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik – hanno avuto fortissima eco nei Balcani. E malgrado siano passati più di vent’anni dalla fine della guerra, hanno sollevato un polverone in Bosnia. L’analista Dragan Bursac ha lodato il lavoro spiegando che i documenti comprovano come il popolo bosgnacco andava «eliminato alla radice». Il membro bosgnacco della presidenza, Sefik Dzaferović ha apprezzato l’impegno di «rendere onore alle vittime del genocidio»; l’esponente croato, Zeljko Komsić, si è detto «scioccato» dai temi discussi dai politici serbo-bosniaci durante la guerra. Di parere opposto Milorad Dodik: ha accusato il Memorial e i ricercatori animatori del progetto di voler solo «paragonare i serbi ai nazisti». Si vorrebbe, secondo Dodik, «imputare una colpa collettiva a crimini individuali, togliendoci il diritto di parlare». —


 

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