Da Virgilio a Petrarca, contagi e letteratura

Andrea del Castagno, Francesco Petrarca, particolare del Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco, 1450, Galleria degli Uffizi, Firenze (Immagine tratta dal web)
Andrea del Castagno, Francesco Petrarca, particolare del Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco, 1450, Galleria degli Uffizi, Firenze (Immagine tratta dal web)

Virgilio si chiede nelle “Georgiche”: «A niente giova il lavoro ben fatto? Niente / fu rivoltare le zolle dure col vòmere?». È - credo - l'interrogativo, drammatico, di molte persone le cui normali attività sono oggi travolte o sconvolte dalle conseguenze della paddemia: dai lavoratori agli studenti. Così riflettevo con gli alunni della mia terza liceo che ho invitato a svolgere una ricerca sul tema del contagio nella letteratura, nella convinzione che le parole dei grandi scrittori del passato possano offrire ai più giovani (ma non solo) chiavi di lettura e spunti di riflessione per affrontare un presente tanto incerto.

Virgilio nella parte finale del terzo libro delle “Georgiche” descrive la peste che aveva colpito il bestiame nel Norico. È una triste raffigurazione di morte, da cui l’autore muove per chiedersi il perché di tanta sofferenza innocente, non provocata da eventuali colpe. Prima di lui, nella letteratura latina, era stato Lucrezio a raccontare un’epidemia, quella della peste di Atene, già narrata da Tucidide. Nel finale del suo “De rerum natura” (il poema filosofico in esametri composto per trasmettere gli insegnamenti del filosofo greco Epicuro) Lucrezio parla della peste per affermare che essa non è opera di una divinità punitrice, bensì effetto di cause naturali: la scienza così, spiegando i fenomeni, può liberare gli esseri umani dalle paure derivanti da convinzioni infondate. E quanto importante sia la scienza per uscire dalle pandemie oggi lo sappiamo bene.

Anche nel Medioevo furono molte le epidemie. Come quella descritta nell'VIII secolo da Paolo Diacono nella sua “Historia Langobardorum” (Storia dei Longobardi). O come la celebre “peste nera” del 1348. L’epidemia, la prima di una lunga serie che colpirà l’Europa fino al Settecento, sconvolse il continente fino al 1350 e portò la mortalità a livelli altissimi: in base a stime attendibili, morirono 30 milioni di persone, circa un terzo dell’intera popolazione europea. Nella sola Italia gli abitanti scesero da 11 a 8 milioni.

La medicina non era in grado di fermare la rapida diffusione del morbo, il che generava - a quanto testimoniano autori come Petrarca e Boccaccio - un forte senso di provvisorietà tra gli individui e sentimenti collettivi di angoscia. Simili a quelli che stiamo vivendo oggi per il Covid-19. Perché se grazie a Dio l'attuale pandemia registra effetti meno gravi, analoga è l'angoscia e simile il senso di precarietà che ci attanagliano in questo momento.

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