Da Tirana a Belgrado un 2021 in stallo: l’ingresso nel club europeo resta lontano

In 12 mesi nessun sostanziale passo avanti nell’iter di adesione e non può essere solo colpa della pandemia

Stefano Giantin

BELGRADO Il 2020, anno d’esordio della pandemia, era stato un’epoca di stasi obbligata perché i Paesi Ue erano alle prese con ben altri problemi per pensare all’ampliamento del club europeo che conta. Ma il 2021 sarà ricordato per lo stallo quasi totale nel processo di allargamento dell’Unione europea ai Balcani.

La regione rimane sempre lontana dall’adesione all’Unione, malgrado gli sforzi della Slovenia. Lo confermano gli sviluppi degli ultimi dodici mesi. A sintetizzare la situazione è stato di recente il Consiglio della Ue, che si è limitato ad «auspicare l’apertura dei negoziati» con Albania e Macedonia del Nord «il prima possibile». Sono parole che ricordano quelle pronunciate l’anno scorso e nel 2019, ma Tirana e Skopje rimangono sempre al palo, malgrado le tante riforme fatte e addirittura nonostante il cambiamento del nome del Paese, deciso da Skopje per superare i veti greci. L’ostacolo principale, invece, è e rimane la Bulgaria, che continua a opporre il veto contro la vicina Macedonia del Nord tirando in ballo astruse dispute storiche e linguistiche.

Le cose cambieranno presto, ha assicurato il nuovo governo bulgaro guidato da Kiril Petkov, che ha promesso di imbastire «discussioni» con Skopje «su nuove basi» per superare l’impasse «nel giro di sei mesi». Altri mesi che acuiranno sicuramente la delusione macedone, in un Paese fortemente europeista, che dal 2005 è candidato all’adesione, ma ancora si vede relegato nell’angolo, senza negoziati aperti. «Stabiliremo un piano d’azione ai primi di gennaio», ha però aggiunto il premier bulgaro Petkov, suggerendo che qualcosa si muoverà, ma solo nel 2022.

Le mosse sull’asse Skopje-Sofia vengono tenute d’occhio – e viste con rassegnazione – anche in Albania, il cui progresso verso l’apertura dei negoziati è legato al destino della vicina Macedonia del Nord. Albania, Macedonia e Serbia che, non a caso, sono fra le locomotive di “Open Balkan”, la futura mini-Schengen balcanica che da molti è interpretata come un surrogato della Ue. «Quando la Ue fallisce», ha così maliziosamente dichiarato l’ormai ex premier macedone Zoran Zaev, allora «abbiamo noi il dovere di europeizzare la regione».

Poco o nulla di significativo si è osservato pure sul fronte dei Paesi già candidati, Serbia e Montenegro. Montenegro che, nel 2021, è rimasto a secco. Podgorica è riuscita ad aprire tutti i capitoli negoziali con la Ue dal 2012, ma ne ha chiusi provvisoriamente solo tre. Nulla cambierà prima che si facciano «progressi» seri sui capitoli 23 e 24, riguardanti stato di diritto e diritti fondamentali, ha ribadito il Consiglio. Un “contentino” è stato invece concesso alla Serbia, che ha finora aperto 22 capitoli su 35 e ne ha chiusi provvisoriamente due. Belgrado che, dopo due anni, ha ricevuto luce verde sul fronte della “transizione verde”, ma sull’evoluzione delle trattative grava il nodo Kosovo, ancora irrisolto.

Kosovo che rimane alla casella di partenza, senza neppure vedersi riconosciuta l’abolizione dei visti per viaggiare nella Ue – e la promessa Ue su questo fronte risale al 2018. E infine la derelitta Bosnia, sempre e solo nel ruolo di potenziale candidato, con zero progressi pure nel 2021. Unica consolazione: anche i Paesi vicini non hanno di che rallegrarsi.

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