Da profugo a leggenda del ring, la storia del guerriero Petrosyan

In un libro il kickboxer armeno adottato da Gorizia racconta la sua storia con la rocambolesca fuga su un camion e l'arrivo in Italia cercando un futuro 
Giorgio Petrosyan esulta dopo aver vinto un combattimento
Giorgio Petrosyan esulta dopo aver vinto un combattimento

TRIESTE. Ha preso a pugni e a calci la miseria, la guerra, l'emarginazione. A 31 anni ha attraversato almeno tre vite. Ha conosciuto le periferie più estreme e gli alberghi di lusso, ha convissuto con chi negli occhi ha solo la disperazione e con chi appartiene allo star-system. È fuggito a bordo di un camion viaggiando nel rimorchio per dieci giorni alla ricerca di qualcosa che somigliasse alla libertà ed è salito in cima al mondo, riempiendo le arene, osannato e imbattuto per oltre sei anni. Profugo. Campione. C’è stato un tempo in cui, arrivato in Italia, veniva scansato. C’è un tempo in cui ha tra gli amici e tifosi più accesi uno tra i più amati rapper italiani, Emis Killa, e un personaggio del calcio di talento, sregolatezza e irrequietudine come Mario Balotelli.

Una vita tutta da raccontare, quella di Giorgio Petrosyan, all'anagrafe armena Gevorg, leggenda della kickboxing. Una vita degna di riempire un libro. E infatti esce il 17 novembre per Rizzoli "Con le mie mani" (348 pagine, 18 euro) scritto da Giorgio Petrosyan con il giornalista Stefano Bizzi, apprezzato collaboratore de Il Piccolo. Prefazione di Emis Killa. Il sottotitolo chiarisce ulteriormente il personaggio: "Tutte le battaglie di un guerriero della vita".

LE BATTAGLIE Battaglie sul ring, quasi tutte vinte. Dal 2007 a Bangkok fino al termine del 2013, a New York, 42 incontri conclusi imbattuto, partecipando alle massime competizioni delle più prestigiose sigle di kickboxing. L'unico atleta al mondo ad aver vinto per due volte il torneo K1-World Max, il primo ad aggiudicarsi nei 70 kg le Glory World Series. Ma quelle per la cintura di campione del mondo o intercontinentale sono state solo una parte delle battaglie affrontate. Come quelle contro la burocrazia, per acquisire finalmente il 24 ottobre 2014 la cittadinanza italiana, in quella Gorizia in realtà già da tempo sua.

Da bambino, lasciata l'Armenia, sognava Milano perchè era la città dove giocava Ronaldo, il suo campione preferito. La vita ha deciso diversamente: è diventato uomo nelle nostre terre, a Gorizia dove ha trovato i primi, convinti e appassionati sostenitori. Riuscendo a voltare pagina dopo un'infanzia che lo aveva costretto a crescere in fretta.

IL RACCONTO Questi alcuni estratti del racconto di Petrosyan e Bizzi proprio sugli anni in Armenia.

«Dopo la disgregazione dell'Unione sovietica - quando io ero piccolo - passammo un periodo difficile. All'improvviso venne a mancare tutto. La distribuzione di energia elettrica era limitata a un'ora al giorno e anche i beni di prima necessità erano contingentati. Per prendere da mangiare si dovevano esibire delle tessere. All'epoca vivevamo tutti insieme da mia nonna perchè così era più facile resistere. Non ricordo quasi nulla di quel periodo, ma il freddo che pativamo d'inverno non riuscirò mai a levarmelo dalla mente».

«Secondo Armen (il fratello, di poco più giovane e a sua volta campione di kickboxing, ndr) già allora ero malato di arti marziali e forse aveva ragione: amavo guardare i film di Van Damme e Bruce Lee e poi fingevo di essere uno dei personaggi di quelle storie. Fu in quel periodo che la mia esistenza cambiò per sempre. Un giorno si presentò a scuola un signore che disse di volerci insegnare a combattere. Ovviamente non ci mise molto a convincermi: quello stesso giorno, tornai a casa e annunciai a mio padre che mi sarei dedicato alle arti marziali»....

Giorgio Petrosyan con Balotelli
Giorgio Petrosyan con Balotelli

...«Caduto il Comunismo e dissolta l'Unione Sovietica era scoppiata la guerra tra l'Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh, un territorio popolato di armeni ma assegnato politicamente al governo azero. L'Armenia era completamente impreparata a un conflitto perchè non aveva un esercito: ai tempi dell'Urss tutto era centralizzato. Anche se ero piccolo, ricordo chiaramente che gli uomini vennero cercati casa per casa per essere mandati al fronte»...

...«Cosa significava essere un soldato lo imparai durante le vacanze estive al lago Sevan. In quel luogo meraviglioso, vicino a casa nostra, c'era un campo di addestramento militare...Io e Armen portavamo agli ufficiali i dolci preparati da nostra nonna e facemmo così amicizia con alcuni soldati. In cambio, loro ci insegnavano a usare il kalashnikov. A dieci anni sapevamo smontare e pulire un Ak-47, mettere i proiettili nel caricatore e premere il grilletto. La scena doveva apparire surreale: c'eravamo noi, poco più che bambini, con in mano i fucili. Sparavamo nel lago come nella celebre scena di Gomorra, con attorno i militari in tuta mimetica. Per noi era poco più di un gioco, non la guerra, e nostro padre voleva evitare che i suoi figli dovessero usare davvero quelle armi per combattere. Un giorno decise di andarsene».

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