Da luoghi di cura a focolai del contagio: ecco come è esplosa a Trieste l'emergenza coronavirus nelle case di riposo

TRIESTE Da luoghi di cura a focolai del contagio. In Friuli Venezia Giulia e a Trieste in particolare, l’anello debole dell’emergenza coronavirus è rappresentato dalle case di riposo, dove in queste settimane alla tragica contabilità delle vittime si somma anche il dramma umano della solitudine e della lontananza dai propri cari. E' da qui, da questi luoghi di estrema fragilità, che arriva un terzo dei deceduti. E' qui che un ammalato su quattro ha contratto il Covid-19. Per composizione demografica, Trieste è punteggiata di case per anziani con una forte osmosi tra ricoveri ospedalieri e ritorni nelle residenze. Facile quindi spiegare il primato giuliano di persone positive al virus, con dati superiori a quelli della provincia di Udine, che pur annovera il doppio dei cittadini.
L’emergenza in corso è dovuta al fatto che realtà con una vocazione sociale si sono trovate spesso impreparate per mancanza di conoscenza infettivologica. E a volte (quante volte?) è stato anche difficile trovare la conferma di un tampone a sintomi compatibili con il Covid-19, con il risultato di diffondere il contagio pure tra gli operatori sanitari. Al 9 aprile su 170 strutture in Regione (per un totale di 10.930 posti letto) , 24 registravano casi di Covid. Una settimana fa gli ospiti positivi risultavano 270, i decessi 90. E il dato è aumentato negli ultimi giorni seppur in mancanza di dati ufficiali.
Dopo settimane di timori, negli ultimi giorni l’attenzione si è spostata sulle residenze private, inizialmente in ombra per la priorità assegnata alla riorganizzazione ospedaliera. A Trieste oltre sessanta strutture sorgono all’interno di normali condomini, con inevitabile promiscuità fra semplici residenti, ospiti e operatori. Una promiscuità che si è tradotta nei primi casi di Covid-19 tra condòmini, contagiati per il semplice fatto di risiedere nello stesso edificio di una casa di riposo, come dimostra il recente caso della Primula, in via Molino a vento.
A Trieste il “bubbone” esplode il 7 marzo 2020, con la prima vittima da coronavirus registrata in Friiuli Venezia Giulia: Rosa Costante, 87 anni, ospite della casa di riposo “Serena” di via De Marchesetti, muore in mattinata all’ospedale di Cattinara. Era stata portata d’urgenza al Pronto soccorso, di notte, a causa di un grave peggioramento della patologia di cui era affetta: il perforamento dell’intestino. Ma l’esame radiologico ha scoperto anche una polmonite interstiziale. Il successivo tampone ha accertato che la paziente era stata contagiata dal coronavirus.
L’Azienda sanitaria attiva subito il protocollo di massima emergenza per la casa di riposo in cui risiedeva: lo stop alle visite e, soprattutto, la decisione di procedere con il test del tampone per tutti gli altri anziani della struttura e per il personale, vale a dire infermieri, Oss e amministrativi. Il test viene allargato anche alle case di riposo in cui operano i dipendenti di una cooperativa che gestisce in appalto la Serena, visto che prestano servizio anche in altre strutture cittadine. In totale sono quindi circa 200 le persone che devono fare il tampone.
Da quel momento la conta dei contagi è inarrestabile: il 14 marzo il bollettino riferisce di casi positivi nelle case Serena, Bartoli e Gregoretti, anche fra alcuni operatori che lavorano a scavalco tra le diverse sedi. Intanto il Comune di Trieste si mette al lavoro per reperire mascherine e per assumere una ventina di Oss. L’azienda sanitaria decide di distaccare medici e operatori nelle case di riposo per evitare che gli ospiti positivi al coronavirus o con altre patologie debbano ricorrere agli ospedali. Resta critica resta la situazione dell’approvvigionamento di dispositivi di protezione per i sanitari.
A una settimana dalla prima vittima, il 15 marzo, arrivano i risultati dei tamponi e il Comune di Trieste è finalmente in grado di definire con precisione l’allarmante quadro delle case di riposo Serena, Bartoli e Gregoretti, dove aumentano ospiti e operatori positivi al coronavirus. La prima domenica di lockdown porta i contagiati in Fvg a 347 unità. Il conto dei decessi, 17, continua a pesare su Trieste, dove i deceduti sono arrivati a 11 e i positivi a 140. Tra le 11 vittime, 3 provengono dalla Serena e 2 dalla Gregoretti. In casa Serena i tamponi hanno riscontrato 22 ospiti positivi e 43 negativi. Alla Bartoli sono un’ottantina gli anziani in fase di analisi e risultano al momento alcuni casi positivi ma asintomatici. Alla Gregoretti non si è invece proceduto con test di laboratorio, ma gli ospiti sono monitorati e nessuno risulta sintomatico. Il municipio rende inoltre noto che, sulla base dei tamponi finora esaminati, le case Serena e Bartoli registrano 8 operatori positivi e 11 negativi. Nel caso della Gregoretti il personale colpito ammonta a 6 unità e quello negativo a 26. Ma è solo l’inizio. Pochi giorni dopo arriva la notizia dei primi due ospiti positivi all’Itis, residenza pubblica che assiste oltre quattrocento persone.
L’assessore comunale alle Politiche sociali Carlo Grilli ottiene dall’Azienda sanitaria la possibilità di installare in casa Serena un presidio medico e infermieristico fisso per consentire il monitoraggio sul posto e ridurre la necessità di ricoveri. Grilli ha chiesto a tutte le strutture di organizzarsi su tre “cerchi”, contenenti uno gli ospiti positivi, uno quelli in attesa di responso e uno i negativi. Il nervo delle case di riposo è scoperto.
Il 26 marzo il direttore dell’Azienda sanitaria di Trieste-Gorizia Antonio Poggiana annuncia per le case di riposo un «piano strategico straordinario già in corso perché, una volta messi in sicurezza i reparti per i ricoveri ospedalieri, è necessario ora concentrare le forze sulle residenze per anziani e disabili». L’Asugi ha già chiesto a tutte le strutture pubbliche e private convenzionate di creare quattro aree distinte, anche se non tutte hanno spazi adeguati: ospiti asintomatici, asintomatici che hanno avuto contatti con positivi, sintomatici in attesa di tampone e positivi accertati.
L’obiettivo è isolare i malati e continuare ad assisterli in loco, inviando medici e infermieri due volte al giorno nelle realtà più grandi e lavorando a chiamata per le altre. Poggiana sa che «il virus arriva dall’esterno» e ha ordinato la mappatura delle condizioni di salute di tutti gli operatori delle residenze, anche non dipendenti direttamente dall’Azienda. I tamponi sono però riservati solo a chi manifestasse sintomi. Il nervo scoperto resta la carenza di mascherine: una situazione che l’unità di crisi dell’Asugi definisce «critica» nelle case di riposo, anche se Poggiana assicura che «le residenze saranno trattate come le strutture sanitarie quanto a forniture.
Intanto però il quadro continua ad aggravarsi: il 30 marzo c’è un secondo decesso fra gli ospiti dell’Itis, dove la residenza Stella alpina registra diversi anziani con sintomi sospetti che attendono il tampone. Sempre a Trieste, casa Emmaus riscontra 4 ospiti e un operatore infetti. Casi che si aggiungono al focolaio e alle morti delle case comunali e a un decesso nella rsa Mademar.
Il 5 aprile il professor Umberto Lucangelo, responsabile del dipartimento di Emergenza dell’Azienda sanitaria giuliano isontina, parla di «12-13 strutture su 74 con pazienti positivi a Trieste. Su 3.800 ospiti al 3 aprile registriamo una cinquantina di casi».
Intanto il vicegovernatore Riccardo Riccardi mette in cantiere una doppia strategia: i tamponi ai parenti degli operatori e il trasferimento dei pazienti non contagiati in strutture “filtro”. A tal proposito vengono individuati il Sanatorio Triestino, la Salus e l’Ospizio Marino di Grado.
Riccardi evidenzia come la situazione più delicata è ora quella delle strutture private, di piccole dimensioni, in cui è difficile separare i sani dagli infetti. Di qui l’ipotesi di trasferire altrove gli ospiti sani delle case di riposo che non riescono a garantire spazi e percorsi di assistenza totalmente separati dai Covid-19. «È fondamentale tutelare ospiti e operatori – afferma il vicepresidente –, evitando che questi ultimi possano involontariamente divenire portatori di contagio in ambienti dove si trovano soggetti fragili».
Nelle case di riposo in cui siano invece garantiti isolamento tra pazienti sani e infetti e una chiara divisione del personale, prosegue Riccardi, «non intendiamo spostare gli ospiti, ma fornire loro terapie e supporto in loco».
Dopo settimane di timori, l’attenzione si sposta sulle residenze, inizialmente in ombra per la priorità assegnata alla riorganizzazione ospedaliera. «Quanto succede fuori dagli ospedali è la cosa che più preoccupa», dice Riccardi, ricordando l’alta età media regionale e triestina. «Non siamo partiti tardi: con la prima ordinanza abbiamo sospeso le visite e ora i professionisti hanno scelto di evitare l’ospedalizzazione, garantendo però una presenza forte delle Aziende sanitarie. Si evita il ricovero finché le condizioni del paziente lo consentono». Nelle strutture, ospiti e operatori continuano però a contagiarsi fra loro: «C’è scarsezza di dpi – riconosce Riccardi – e una quota significativa di personale positivo per il quale serve un avvicendamento, ma stiamo estendendo i tamponi sui dipendenti e abbiamo uniformato le strategie di contenimento».
Tra le ultime proposte emerse, è di questi giorni l'idea di una nave-ospedale ormeggiata nel porto di Trieste dove ricoverare i contagiati che si trovano attualmente nelle case di riposo promiscue, quelle collocate in condomini nei quali, oltre alle residenze per gli anziani, sono presenti normali appartamenti. Ci sta pensando seriamente la Regione, con il vicegovernatore e titolare della delega alla Salute Riccardo Riccardi che ha subito coinvolto anche Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di Sistema Portuale dell’Adriatico Orientale. L’unico esempio analogo, in Italia, è attualmente quello della nave-ospedale allestita e ormeggiata a Genova: un esperimento che sta dando risultati incoraggianti.
Era solo questione di tempo: l’8 aprile in via Molino a Vento si scatena il focolaio più grave da quando a Trieste è esplosa l'emergenza Covid-19: la casa “La Primula” viene evacuata dopo la positività rilevata in tutti i 40 ospiti, in otto dei 22 dipendenti e nell’amministratore delegato Matteo Spangaro. Negli ultimi giorni, proprio a “La Primula”, erano morti otto ospiti con pluripatologie, che però non avevano fatto il tampone.
In ospedale, sono stati trasferiti, grazie agli operatori del 118, cinque anziani con sintomatologia da Covid-19 severa, mentre nella Casa di cura Salus verranno assistiti sette ospiti con sintomatologia clinica più lieve. Altri ospiti dovevano essere trasferiti all’Ospizio Marino di Grado, ma una protesta popolare e il dietrofront del sindaco bloccano tutto.
La Procura di Trieste decide di aprire un fascicolo sulla “Primula”, mentre il vicegovernatore del Fvg Riccardi comunica che «la Regione ha sospeso l’autorizzazione al funzionamento della Primula», con un provvedimento del direttore generale dell’Asugi, Antonio Poggiana: sono state riscontrate anche, secondo il parere dell’Azienda sanitaria, carenze per quanto riguarda i requisiti professionali e tecnici.
Intanto a Trieste è emergenza anche a casa Antonella, a Opicina, dove si trovano 8 ospiti positivi su 10, cui si aggiungono due già deceduti in ospedale per Covid-19 e due ricoverati. Stando a quanto riferito dalla direzione, il coronavirus è stato portato all’interno da una paziente dimessa dall’ospedale e diventata sintomatica poco dopo. Gradualmente quasi tutti gli utenti sono stati colpiti e anche la proprietaria si trova in ospedale.
Il caso Primula fa emergere un altro aspetto dell’emergenza: a Trieste oltre sessanta strutture sorgono all’interno di normali condomini, con inevitabile promiscuità fra semplici residenti, ospiti e operatori. La Regione dà quindi indicazioni all’Azienda sanitaria di avviare uno screening degli abitanti dei palazzi interessati da contagi, verificando le condizioni di salute di ognuno e procedendo con i tamponi in presenza di sintomi. Le strutture situate all’interno delle civili abitazioni triestine sono 64.
L'ELENCO DELLE CASE DI RIPOSO OSPITATE AL PIANO:
Una storia che comincia negli anni Ottanta, quando molti grandi appartamenti d’epoca del centro città vennero acquistati per investimento e trasformati in case di riposo. In quegli anni la deregolamentazione era totale e non si andava troppo per il sottile sui requisiti, se le caratteristiche necessarie per ottenere l’accreditamento sono state normate per la prima volta solo ai tempi della giunta Serracchiani. Il resto è storia nota: servizi a volte efficienti e a volte decisamente no, qualità dell’alimentazione bocciata in molte strutture dai report dell’Azienda sanitaria, scarso monitoraggio dei servizi.
Le strutture oggi non sono quasi mai adeguate a gestire gli isolamenti degli ospiti positivi al coronavirus e sono ormai 16 su 80 le realtà che hanno registrato anziani colpiti dal Covid-19.
Riccardi quantifica le residenze promiscue in 45: una difformità di numeri, che dipende probabilmente dall’appartenenza di più strutture alle medesime società di gestione
E proprio in seguito ai test eseguiti tra i condòmini di via Molino a Vento emergono le prime persone positive al coronavirus. Si tratta dei tre componenti di una famiglia (uno dei quali ha leggeri problemi respiratori) e di un paziente oncologico. Quest'ultimo, 65 anni, si è aggravato ed è morto sabato 18 aprile.
Il contagio tra condomini e utenti potrebbe essere avvenuto a causa della promiscuità, più volte denunciata dagli inquilini con esposti ai Nas e segnalazioni all’Asugi, tra la casa di riposo e gli appartamenti vicini (di proprietà in totale di 15 famiglie). Ancora il giorno dopo la rilevazione dei 36 contagiati alcuni anziani della struttura avevano usato l’ascensore condominiale senza guanti e mascherina.
Il dramma che sta avvenendo nelle case di riposo non riguarda solo la triste conta dei decessi, ma anche la solitudine dei sopravvissuti. Degli ospiti non contagiati ma reclusi e dei loro parenti. Lo racconta, in una email indirizzata all’Itis, ma diventata diventa una sorta di “lettera aperta” in grado di esprimere un bisogno comune a centinaia di famiglie, Sabrina Moschella, la cui madre è ospite nella struttura. Lo stato d’animo è quello di chi, da ormai un mese e mezzo, non può più vedere la propria madre o il proprio padre. Un distacco forzato indispensabile per contribuire a ridurre il rischio di contagio nelle case di riposo, ma il passare delle settimane accresce il timore per l’impatto della lontananza: la paura di chi sta fuori è che senza ricevere visite gli anziani si sentano abbandonati dai propri congiunti, con ripercussioni potenzialmente molto gravi. Ecco, allora, la proposta rivolta alle strutture: prevedere delle modalità di visita che consentano a ospiti e parenti di vedersi, ovviamente a distanza di sicurezza e facendo ricorso a mascherine, guanti, cuffie, copriabiti. più sensibili a un possibile contagio.
«Gli anziani hanno necessità di vedere i loro cari, non sono portatori di coronavirus e non devono essere trattati come tali – si legge nel messaggio –. Sapete quanto è alta la loro fragilità, anche psicologica, oltre che fisica. Il contatto con un familiare è parte di una terapia, e ha la stessa importanza di un farmaco salvavita. Cadere in depressione per la mancanza di visite, sentirsi abbandonati e lasciarsi andare è molto, molto probabile, come sta accadendo a mia madre. Siete consapevoli di questi pericoli? Avete l’obbligo di organizzare delle visite con i parenti totalmente controllate, magari di poche decine di minuti, una o due volte a settimana a turno, con tutti i sistemi di protezione necessari, ma dovete farlo».
Dall’Itis è arrivata la risposta che, almeno per il momento, non sarà ancora possibile riattivare il servizio di videochiamata e le visite, perché l’intero organico è impegnato in uno sforzo massimo per frenare la diffusione del virus.
A Muggia intanto agli ospiti della casa di riposo comunale sono stati messi a disposizione dei tablet che permetteranno loro di videochiamarsi con i familiari, su iniziativa della Giunta Marzi.
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