Crostoli, chiacchiere, sfrappole: ecco come preparare il dolce di Carnevale - VIDEO

Cambia il nome ma non il gusto. Crostoli e frittole, “grasse” delizie
grostoli trentini
grostoli trentini
A Carnevale, anzi, soprattutto di questi tempi, «el frito xe tuto bon». Trieste non fa eccezione. L’unico dibattito aperto, da tempi immemori, non riguarda tanto le modalità di preparazione dei due tipici dolci carnevalizi, quanto il loro nome. Quelli che dalle nostre parti si chiamano cróstoli, in Trentino sono i gròstoi; in tutto il centro sud, ma anche a Milano, vengono servite con il nome di chiacchiere; in Liguria e Piemonte come bugie o risòle; sfrappe nelle Marche, cioffe in Abruzzo, maraviglias in Sardegna, cenci in Toscana, galani in alcune aree del Veneto. L’altra leccornia fritta che la tradizione carnevalizia ci ha consegnato sono le pallottole ripiene conosciute come frittole (vedi alla voce castagnole, frittelle, caragnoli o rosacatarre in altre parti d’Italia). 
 
Il fritto, di chiara origine popolare, chiama a sé campanilismo. Ma se i professionisti del mestiere hanno ormai appianato ogni divergenza (nell’olio bollente, alla fine, non ci si può buttare dentro di tutto), sopravvivono ancora alcune specificità territoriali. È più facile per esempio trovare frittelle con le mele in Friuli, mentre in Venezia Giulia si opta più spesso per l’uva passa (in arrivo via mare, storicamente, dalla Turchia o dal sud Italia).
 
Rimane da chiedersi: perché il fritto a Carnevale? La ragione trova origine nei grandi ritrovi di piazza in cui era necessario soddisfare gli astanti con prodotti buoni, semplici e caldi. Quale migliore soluzione allora che impastare farina, burro, uova, zucchero in grandi caldere di grasso animale e sfornare delizie in quantità? Un ultimo, succulento banchetto prima delle privazioni della Quaresima. 
 
 
Crostoli, chiacchiere, bugie: la ricetta del dolce di Carnevale per eccellenza
 
 
Col tempo, si sa, ciò che nasce come necessità diventa tradizione. «Non c’è una codifica vera e propria del dolce fritto», conferma Matteo Cadenaro, pasticcere dell’omonimo laboratorio. Allo storico Caffè Pirona la ricetta è sempre la stessa da più di un secolo, ma guai a chiederla: «Si autodistrugge ogni mattina», scherza l’esperto artigiano. Sergio De Marchi. «A Trieste, i crostoli sono di forma romboidale o quadrata». 
Spostandosi poco più in là, da Penso, vengono aggiunti panna, scorza di limone e bacche di vaniglia del Madagascar. Dalla stessa pasta dei crostoli nascono i rafioi (“ravioli”), ovvero la versione ripiena di marmellata, crema, cacao o impasto di frutta secca e noci. Le castagnole sono le varianti morbidi impastate con farina di castagne. 
 
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Quanto alle frittole triestine, esse seguono la scia dei bigné, lievitate e con diverse farciture: uvetta, zabaione ma spesso e volentieri crema pasticciera. Come la frutta pastellata veneta, vanno mangiate calde, appena scolate dall’olio (165°C/180°C). 
Quelle istriane presentano infine un impasto con mele, cacao, pinoli e uvetta: “importate” dagli esuli, vengono preparate ancora in casa. 
 
Una menzione speciale la merita il krapfen, pasta lievitata di origine austriaca: si prepara con l’olio ad una temperatura più bassa (80°C) e a Trieste, rivela Rosanna Ceglar della pasticceria Penso, «si farcisce di marmellata d’albicocca». Su un punto, almeno, sono tutti d’accordo: quello buono si riconosce dalla fascia bianca tra le due parti cotte. Segna la linea di galleggiamento nell’olio. 
 

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