Crac da 10 milioni, Masè junior dal giudice
TRIESTE False comunicazioni sociali e fallimento dolosamente ritardato. Tutto all’interno di una bancarotta. Queste le accuse mosse nei confronti di Andrea Masè, 58 anni, già amministratore unico dello storico salumificio di via Ressel, travolto dal crac e poi passato di mano alla società friulana Bts. Venerdì l’imprenditore comparirà davanti al giudice Laura Barresi alla quale il difensore, l’avvocato Emanuele Urso, ha presentato per questo procedimento un’istanza di patteggiamento relativa alla pena (sospesa) di un anno e quattro mesi di reclusione.
Le irregolarità al centro del procedimento sono state rilevate nella relazione del curatore Giovanni Turazza, poi confermate dagli investigatori della Tributaria. In pratica Masè junior aveva “corretto” i bilanci relativi al 2009 e agli anni seguenti iscrivendo nell’attivo patrimoniale immobilizzazioni, costi di ricerca e sviluppo e brevetti per il valore - fittizio - di oltre sei milioni di euro. Insomma, secondo il pm Matteo Tripani, il magistrato titolare del fascicolo, si è trattato solo un ardito trucco contabile servito per ritardare la richiesta di fallimento in proprio. E tutto questo per ottenere, così emerge nel capo di imputazione, un ingiusto profitto.
Al momento del crac del salumificio Masè - nell’aprile del 2013 - il passivo accertato per l’azienda con 15 punti vendita e 75 dipendenti era stato di oltre 10 milioni di euro. Da qui la richiesta di fallimento in proprio presentata dall’avvocato Umberto Urso a nome proprio del titolare Andrea Masè. Richiesta che era stata accolta dall’allora presidente del Tribunale fallimentare Giovanni Sansone che, appunto, aveva affidato l’incarico di curatore al commercialista Giovanni Turazza. Conti che erano stati definiti catastrofici. In particolare, scorrendo i dati del bilancio, era emerso che l’indebitamento con le banche ammontava a oltre sei milioni e quello nei confronti dei fornitori a due milioni e 600mila euro. Altri passivi riguardavano quelli di natura tributaria. Nel 2011 era stata indicata una perdita di 307mila euro, mentre l’anno prima la stessa voce aveva riferito la cifra di 600mila euro.
Una serie di guai, insomma, che si era concretizzata nel decreto di sequestro preventivo per la somma complessiva di oltre 310mila euro, disposto dal gip Luigi Dainotti su richiesta dello stesso pm Tripani. Il giudice aveva infatti emesso un provvedimento di sequestro - tecnicamente fino alla cosiddetta concorrenza della somma - della casa di famiglia dell’ex amministratore perché non erano stati trovati altri soldi. Nel mirino erano finite infatti due unità immobiliari situate a Strembo, in provincia di Trento. Si trovano in via Nazionale 34.
«Ho consapevolmente deciso - aveva spiegato Masè - di privilegiare il pagamento degli stipendi a dicembre. In merito al sequestro dell'abitazione in provincia di Trento, chiarisco che nel 2010 ho ipotecato la casa oggi sequestrata a garanzia di un finanziamento a favore dell’azienda che affrontava le prime difficoltà».
Ma intanto l’operazione Bts si era concretizzata. L’accordo per l'affitto d’azienda era stato definito da Turazza. Nell’accordo allora sottoscritto non era stato trascurato l’aspetto occupazionale: dei 75 dipendenti della Masè, 65 erano stati quelli riassunti dalla Bts. Insomma un successo.
Amministratore della nuova società era stato nominato Dino Fabbro, udinese, fino a qualche tempo prima proprietario di una serie di negozi della catena di supermercati Di Meglio in regione. Come referenti e consulenti la Bts si era appoggiata a una cordata imprenditoriale sempre friulana composta da Franco Soldati, presidente dell'Udinese Calcio, insieme all'imprenditore Carlo Fulchir e all’assessore alla caccia della provincia di Udine Luca Marcuzzo.
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