Cpt: 52 clandestini, 52 vite sospese
Per la prima volta è stato possibile entrare all’interno della struttura: ecco come si vive. Grate e sbarre ovunque, ma gli ospiti sono «trattenuti», non «detenuti»
GRADISCA Gli arcobaleni colorati sulle pareti di cemento, i murales con i fiori, i cartelloni firmati con le poesie in rima e, negli angoli dei corridoi, vasi con le piante sempre verdi. È tutto così un po’ ingenuamente naif, qua dentro. Tutt’attorno però ci sono le sbarre e sopra il campetto da calcio, a tagliare a quadretti il cielo, le reti. Perchè questo non è un asilo di periferia, no, questo è il Centro di permanenza temporanea e accoglienza per immigrati clandestini, questo è il Cpt di Gradisca.
È la prima visita di giornalisti al Cpt di Gradisca e la trafila per entrare è quella scontata: consegna documenti al posto di guardia, portoni metallici che si aprono. Poi, quei lunghi corridoi con quei surreali arcobaleni disegnati a mezza altezza. C’è anche la musica diffusa da altoparlanti invisibili in questo posto che appare sospeso in un limbo senza tempo. I ragazzi («trattenuti», non «detenuti»: sottigliezze di cui è capace la lingua italiana, ma la realtà cambia di poco) ciondolano senza aver nulla di preciso da fare. In questo momento ce ne sono 52 qua dentro, tutti maschi (è da mesi che non viene condotta al Cpt gradiscano una donna), quasi tutti maghrebini, quasi tutti ex carcerati. In sala mensa c’è la tv accesa ma nessuno la guarda mentre un ragazzone dalla pelle nera legge un giornale. Lì dietro c’è anche la moschea, o meglio un paio di stanze adibite a moschea. I tappeti per terra, ci si entra solo dopo essersi tolti le scarpe mentre sullo stipite della porta c’è l’orario delle preghiere tratto dal sito www.arab.it: «il più esperto tra noi - spiega un ragazzo - guida gli altri nella preghiera, anche se davvero nessuno di noi però è davvero esperto: cosa vuoi, qua siamo tutti ex tossici ed ex ubriaconi...» Prima invece c’è l’atelier, il laboratorio, dove un ragazzo pakistano che non spiaccica una-parola-una d’italiano sta realizzando un quadro in un improbabile stile etno-kitch.
I corridoi, belli puliti, sono un rincorrersi di grate e barriere di ferro e da questa prospettiva a strisce capisci perchè qualcuno su un muro ha scritto «siamo in carcere» anche se poi le porte sono tutte aperte e, anzi, nei giardini hanno tagliato grate e ferri: «Sì, qua dentro stiamo abbastanza bene, adesso hanno anche tolto molte sbarre e va proprio meglio: speriamo che a questo punto ne tolgano anche altre perchè se no è davvero come essere in carcere» dice Sabir Ciaguru, un ragazzo proveniente dal Sahara Occidentale. Ieri la sua storia era rimbalzata sui giornali, ha chiesto asilo politico ma ormai sta per scadere il tempo di permanenza al Cpt e non ha ricevuto risposte: rischia così di ritrovarsi da un giorno all’altro in Marocco, dove è stato condannato a 15 anni di carcere in quanto sospettato di far parte del Fronte di liberazione del Polisario. Così come rischia, ma la punizione dei famigliari, un ragazzo la cui colpa è un orecchino al lobo sinsitro e un tatuaggio sull’avambraccio.
I ragazzi maghrebini vedono i giornalisti e si fanno tutt’attorno. In molti hanno in mano i fogli con timbri e intestazioni altosonanti che raccontano la loro storia, qualcuno ha le fotocopie di articoli che hanno raccontato la loro vicenda personale. Sono tutti convinti di avere pieno diritto a rimanere in Italia, anche perchè poi, come riassume efficacemente un maghrebino più anziano degli altri, «per cinque che vengono espulsi da qua, cinquemila arrivano in Sicilia». Tutti, comunque, leggono i giornali e seguono il dibattito sulle leggi sull’immigrazione: «Ma la situazione non cambierà finchè non cambierà la politica italiana» riassume un altro clandestino. C’è un ragazzo disteso in un angolo del cortile in cemento sopra una coperta mentre un altro, nordafricano anch’egli, non si toglie i grandi occhiali scuri. Sulla guancia il ricordo di una coltellata. Attorno, i corridoi con le camerate: otto letti inchiaverdati al terreno, mobili bloccati alle pareti. Lontano, nell’angolo opposto di questo cortile, c’è un gruppo di giovani neri, probabilmente senegalesi, o chissà. Fanno vita per conto loro ma non serve che siano fisicamente separati dagli altri come era invece avvenuto qualche tempo fa per i nigeriani e per fortuna che la sezione femminile era deserta così erano stati sistemati lì. Mentre i maghrebini scherzano davanti a telecamere e macchine fotografiche i senegalesi (se sono senegalesi) iniziano a urlare, a inveire, «cosa fotografi, non c’è niente da fotografare», urlano. Ma l’impressione è che ogni occasione sia buona per protestare, per agitarsi, per creare scompiglio. Oltre la camerata dei senegalesi (se sono senegalesi), il campetto di calcio: dietro le grate, due pattuglie dei baschi verdi della Finanza. Tocca a loro questo turno. Poi, alle 13, arriveranno i Carabinieri a dare loro il cambio.
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