Covid-19 e appalti sospetti dalla Bosnia alla Romania
Doveva essere una sorta di affare del secolo, un vanto per le autorità, capaci di garantire un’ancora di salvezza ai contagiati. Si sta rivelando uno scandalo di enormi proporzioni. Scandalo che, in piena epidemia, ha investito la Bosnia-Erzegovina e in particolare la Federazione bosgnacco-croata, una delle due entità politiche che, con la Republika Srpska, costituiscono il Paese balcanico.
Per comprenderne i contorni bisogna fare un passo indietro al 25 aprile, quando all’aeroporto di Sarajevo atterra un cargo da Pechino, carico di 80 respiratori. Ad accoglierlo, il premier della Federazione, Fadil Novalić, che ha lodato le istituzioni, capaci «di acquistare quello che ci serve in un momento di concorrenza senza precedenti». I respiratori saranno distribuiti negli ospedali, «prima linea di difesa», assieme ad altri venti già pagati e in arrivo, aveva anticipato Novalić.
I preziosi apparati, tuttavia, non sono ancora stati consegnati ai medici. Restano infatti bloccati all’aeroporto, per ostacoli nello sdoganamento. Ma non è quello il problema maggiore. Assai più allarmanti sono i retroscena dell’affare, sui quali indagano ora la procura di Sarajevo e l’Agenzia statale di investigazione e protezione (Sipa). Retroscena che riferiscono di un appalto per i respiratori, per un valore di 10,5 milioni di marchi bosniaci convertibili (circa 5,3 milioni di euro, una cifra di tutto rispetto sborsata dalle casse pubbliche), appalto che è stato a sorpresa aggiudicato alla “FH Srebrena malina” di Srebrenica, un’oscura società specializzata nella coltivazione di verdura. E lamponi. L’appalto - sospetto anche secondo esponenti politici al governo nella Federazione, mentre esperti hanno detto che i respiratori non sarebbero neppure adatti alla terapia intensiva – sarebbe finito nelle mani di un’azienda che ha di fatto «bypassato» quelle autorizzate a questo tipo di acquisti, ha accusato Ivana Korajlic, di Transparency International.
Ma a inquietare sono soprattutto i costi. Per 5,3 milioni di euro sono stati acquistati un centinaio di respiratori mobili, circa 53 mila euro cadauno, mentre sul mercato modelli simili hanno un prezzo che oscilla dai 5 mila ai 25 mila euro.
Qualcuno ha fatto la cresta? È la risposta che dovrà arrivare dalla magistratura. Ma intanto le polemiche infuriano, con attacchi durissimi sui social al premier Novalić e a Fahrudin Solak, numero uno della Protezione civile, che avrebbe dato luce verde all’affare. È lo «scandalo più grande» da quando Novalić è alla testa del governo federale, ha attaccato il politico Mirsad Camdzić, che ha sostenuto che ditte specializzate, con offerte inferiori a quella della “Srebrena malina”, sarebbero state rigettate dalle autorità.
Ma lo scandalo in Bosnia – e i recenti appalti sospetti in Slovenia - non sembrano essere eccezioni. L’autorevole Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) ha portato alla luce anche altri affari con molte ombre. Come quello emerso in Romania: un milione di mascherine e tute protettive per gli ospedali – fronte caldo con 800 medici già contagiati - «da buttare» perché inadeguate. Peccato che il costo sostenuto sia stato di ben 800 mila euro. L’affare è stato gestito da un intermediario con precedenti penali, ma con ottimi agganci in politica. Mascherine e tute erano necessarie a Unifarm, grande distributore che rifornisce gli ospedali nazionali: cliniche rimaste di stucco quando hanno visto consegnare prodotti “made in Turchia”, del tutto insufficienti per la protezione personale, ha scritto l’Occrp. Anche i costi hanno fatto sobbalzare l’opinione pubblica: per le tute infatti si parla di un ricarico di più del 100% sul prezzo d’acquisto. E lo stesso intermediario starebbe ora tentando il bis, cercando di piazzare allo Stato altri tre milioni di mascherine e 21mila tute. —
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