Cosolini lancia il patto con la città «Non merita l’asse Camber-Lega»
TRIESTE. Recitare il mea culpa («abbiamo fatto molto “per” la gente ed evidentemente troppo poco “con” la gente», «abbiamo avviato una trasformazione decisiva della città a partire da Porto vecchio ma non siamo stati forse sufficientemente attenti alle domande di minuta manutenzione che la casa richiedeva») davanti a un pulpito sacro sarebbe stato troppo. Il laico Roberto Cosolini, a 24 ore da una giornata in cui «abbiamo sofferto, inutile nascondere che ci aspettavamo risultati diversi», sceglie però l’ombra di una chiesa tra le più grandi e frequentate di Trieste, ai tavolini di un bar di Campo San Giacomo, nel cuore di uno di quei rioni, di quelle periferie da coccolare di più, attorniato da una schiera di cattolici doc mischiati fra candidati e assessori uscenti della sua coalizione, per lanciare quello che definisce «un nuovo patto con i cittadini da spiegare tra la gente, da qui al 19 giugno», snocciolato in cinque punti - «sanità e servizi pubblici, Ferriera, occupazione, periferie, giovani» - «per vincere la sfida della sfiducia di chi stavolta non ci ha votati». La mossa del tutto per tutto? C’era una volta il 2011 in cui era stato l’elettorato di centrodestra a tirare i remi in barca. Cosolini è troppo sgamato per credere alle favole. Sa bene che sarà difficilissimo. Ma ci crede. E il fatto che quasi tutti i cento candidati delle liste al suo seguito gli facciano quadrato, in un umidiccio pomeriggio di San Giacomo, vuol essere la testimonianza che anche i suoi ci credono.
«Ce la possiamo fare», insiste il candidato guardando negli occhi russiani, cosoliniani e illyani della prim’ora come Bassa Poropat e Fortuna Drossi: «Non è una sorpresa un centrodestra forte a Trieste. Nel 2011 (in cui Antonione prese da Cosolini una scoppola, ndr) tutte le anime divise del centrodestra al primo turno insieme presero il 47%, un Dipiazza che stavolta arriva al 40% con il centrodestra ricompattato non è sorprendente. Ma può essere il suo pieno, noi sappiamo invece di avere margini di crescita. Questa è la sfida più difficile della mia vita, ma ci sono abituato e sono consapevole che anche stavolta si può vincere».
Scrosciano applausi. Roba da almeno mezzo minuto filato, di quelle che tanto piacciono al “senatore” Camber quelle poche volte in cui parla pubblicamente alle truppe. E in effetti è il camberismo, quello che Dipiazza nel 2011 si promise di debellare sponsorizzando Antonione il quale si ritrovò senza un mucchio di gente motivata a votare per lui, che diventa - col leghismo - il bersaglio di Cosolini. Che, stringi stringi, lascia intendere: se al primo turno è stato un referendum pro o contro me, Serracchiani e Renzi, il ballottaggio ora lo rigiro io a referendum pro o contro Dipiazza avvinghiato a «Camber, Monassi, Roberti e Tuiach».
«Sappiamo bene cosa abbiamo realizzato - il contrattacco di Cosolini - ma dobbiamo spiegarlo meglio tra la gente, forse la fase di crisi ha fatto sì che la nostra azione sia stata giudicata insufficiente da una parte della cittadinanza. Dobbiamo spiegare cosa abbiamo fatto, ascoltare, accogliere le critiche, ma dobbiamo anche chiedere: a chi volete affidare la città? A chi ha già dato prova di essere campione di immobilismo e populismo? A chi spera di speculare per la terza volta sulla Ferriera ripromettendone una chiusura mai compiuta in due mandati? A chi ha avuto la fortuna di ereditare progetti di riqualificazione urbanistica nel cassetto preparati da Illy, senza Patto di stabilità? A chi ha lasciato quel cratere al cantiere dell’ex Maddalena figlio di un accordo di programma preparato da un assessore (il riferimento è a Giorgio Rossi, il braccio destro di Dipiazza, ndr) poi designato direttore dei lavori? A chi ha votato in giunta la compravendita di terreni (di Guardiella da parte di Dipiazza, ndr) ricavandone un guadagno poi giudicato illegittimo dal Tribunale? A chi ha speculato affermando falsità sulla sanità come il taglio di centinaia di posti letto a Trieste? Io mi rifiuto di liquidare la questione lavoro ripetendo “lavoro, lavoro, lavoro” in tv senza indicare lo straccio di un’azione che possa effettivamente creare lavoro».
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