Così l'evoluzione ci porta all'infarto

Lo suggerisce uno studio pubblicato da un team di ricercatori californiani. L’uomo ha perso un gene che risulta protettivo nei confronti dell’aterosclerosi
Scientist viewing human sample on glass slide before placing under microscope in laboratory
Scientist viewing human sample on glass slide before placing under microscope in laboratory
TRIESTE. Un mio collega di Boston, anch’egli interessato alle malattie cardiovascolari, inizia le proprie conferenze con una domanda all’uditorio. Fissando negli occhi le persone in sala chiede a ciascuno di guardare chi siede alla propria destra e chi alla propria sinistra e di “decidere” chi dei tre morirà di infarto o ictus. Un incipit a effetto, non c’è dubbio, ma anche la testimonianza di una verità universale: un terzo dell’umanità oggi muore a causa di una malattia cardiovascolare, nella maggior parte dei casi causata dall’aterosclerosi. 
E se questo fosse proprio il destino che l’evoluzione naturale ci ha assegnato?
 
È quanto suggerisce uno studio pubblicato questa settimana sui Proceeedings della National Academy of Sciences americana a firma di un team di ricercatori di La Jolla, in California. Ajit Varki e collaboratori sono partiti da un’osservazione curiosa, ovvero quella che le grandi scimmie vicine all’uomo, in particolare gli scimpanzé, non sviluppano l’aterosclerosi e non muoiono d’infarto. Nemmeno quando, in cattività, sviluppano gli stessi fattori di rischio dell’uomo, ovvero colesterolo elevato, pressione alta e poco esercizio fisico.
 
L’aterosclerosi, insomma, sembra un tratto distintivo dell’invecchiamento umano. E un tratto antico, visto che mummie di tutte le culture arcaiche mostrano placche nelle proprie arterie.  I ricercatori californiani hanno osservato che, nel corso dell’evoluzione, circa 2-3 milioni di anni fa, l’uomo ha sviluppato una mutazione in un singolo gene, chiamato CMAH, che ha portato alla sua inattivazione.
 
Questo gene consente agli altri mammiferi, grandi scimmie incluse, di sintetizzare uno zucchero, il Neu5Gc, che risulta protettivo nei confronti dell’aterosclerosi. Non soltanto, ma, non avendo questo zucchero, noi umani sviluppiamo una risposta immunitaria seguita da una condizione di infiammazione cronica quando ne veniamo in contatto, tipicamente nutrendoci di carne di altri animali. Questo meccanismo spiegherebbe la correlazione dannosa che esiste tra l’assunzione di carne rossa e le malattie cardiovascolari.
 
Dall’osservazione all’esperimento: topi in cui il gene CMAH viene inattivato con l’ingegneria genetica e che sono nutriti con una dieta “umana” ricca in calorie e carne rossa sviluppano aterosclerosi come noi. 
Perché allora l’uomo ha perso questo gene nel corso dell’evoluzione? Secondo Varki per un motivo molto semplice: la sua assenza consente di correre più a lungo senza fatica, un tratto vantaggioso quando eravamo cacciatori nella savana. Ancora una volta, insomma, siamo figli della traiettoria evolutiva dei nostri geni. Come sfruttare questo concetto per vivere più a lungo è una storia ancora tutta da scrivere.

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