Così la guerra in Ucraina fa oscillare il “nostro futuro”

Pier Aldo Rovatti
Refugees leaving to Romania after fleeing from Ukraine, walk at the border crossing in Palanca, Moldova, Thursday, March 17, 2022. (AP Photo/Sergei Grits)
Refugees leaving to Romania after fleeing from Ukraine, walk at the border crossing in Palanca, Moldova, Thursday, March 17, 2022. (AP Photo/Sergei Grits)

TRIESTE La guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina sta mettendo a repentaglio il futuro del nostro mondo. Dobbiamo comunque riflettere sul senso da dare alle parole “futuro” e “mondo”, e capire bene che cosa stiamo dicendo con la parola “nostro”.

Tendiamo comprensibilmente a elevare lo sguardo sopra la tragedia del popolo ucraino che ogni giorno viene documentata con testimonianze e immagini davvero drammatiche. Vorremmo sapere dove sta andando il mondo, quali conseguenze geopolitiche ci aspettano, quali effetti negativi dobbiamo prevedere o sono già presenti nell’economia mondiale, quali contraccolpi si preparano per la vita materiale di ciascuno di noi, a quante restrizioni dovremo far fronte, insomma che futuro ci attende.

Ma alzare lo sguardo, se è un gesto necessario per sapere dove sta andando la storia mondiale, quel contenitore in cui tutti viviamo, è anche un gesto che forse ci allontana dalla guerra che è in corso in una parte di Europa non così distante dalle nostre case. Lo sguardo mondializzante, a propria volta, è pieno di dubbi e interrogativi, ma ci fa sentire in qualche modo meno angosciati, un po’ più padroni della situazione.

Questa maniera di vivere la parola “nostro” è come se ci fornisse un supplemento di soggettività, nel momento in cui respiriamo a fatica dopo un’immersione forzata nelle acque della pandemia, quel virus che pure continua a circolare ma che abbiamo voglia di dimenticare.

È molto difficile convincersi che ciò che è accaduto in Ucraina, lo specifico di tale tragedia, non costituisca una parte fondamentale di ciò che intendiamo quando pronunciamo la parola “nostro”: non riusciamo a distoglierci da una scena così atroce scaricando le ansie sulle pratiche umanitarie a favore dei profughi che scappano dalla guerra, milioni di persone con le loro esistenze spezzate quasi fossero anche le nostre, e una simile identificazione ci pesa anche se desidereremmo chiudere un poco gli occhi.

Alziamo lo sguardo – comprensibilmente, razionalmente, e magari anche criticamente – sulle sorti mondiali che si legano all’invasione dell’Ucraina, per non doverlo abbassare sulle macerie, sui corpi morti per le strade, sui bombardamenti degli ospedali, sui bambini uccisi dalla violenza delle armi, insomma su tutte queste scene infernali che non vorremmo fossero nostre, scene da film dell’orrore, mentre sappiamo perfettamente che noi siamo proprio lì più che nei preoccupati dibattiti degli esperti di geopolitica.

Prego il lettore di non fraintendere. So bene quanto siano importanti le analisi geopolitiche (e come, d’altronde, non possiamo neppure dimenticare le sorti climatiche del pianeta dove viviamo), tuttavia tutti noi nasciamo, peniamo e moriamo: ecco dove sta il nocciolo fondamentale di ciò che dovremmo intendere per “nostro”. Scene che, grazie al clamoroso progresso mediatico, adesso stanno davanti agli occhi di ciascuno (e in ogni parte del mondo): esse sono l’abc della vita, di come è facile perderla o metterla in gioco, di come è banale spegnerla premendo un pulsante o un grilletto, di come in un amen venga eliminata un’intera esistenza.

E qui ci troviamo di fronte alla parola “futuro”: infatti la guerra fa vibrare pericolosamente questa dimensione legando l’uno all’altro l’aspetto individuale e quello collettivo. L’oppressore vuole cancellare il futuro dell’oppresso, e lo fa anche quando ne decide per lui uno diverso. Quale futuro possiamo immaginare per chi viene lasciato senza acqua, senza luce, senza cibo, senza possibilità di scaldarsi? Gli procureremo uno staff di psicoterapeuti che lo facciano uscire dalle sue angosce? In realtà, verrà abbandonato lì e che si arrangi, visto che magari gli è proibito lasciare la città o il villaggio in cui – diciamo così – sta vivendo (o sopravvivendo).

Noi, qui, al caldo, con la luce e il frigorifero provvisto di cibo, liberi di spostarci da un luogo all’altro, ci lamentiamo continuamente di avere un futuro vuoto e senza aspettative, e dunque abbiamo la sensazione, spesso almeno, di vivere in un presente opaco e ripetitivo, nel quale magari ci si affatica e comunque ci si annoia.

È istruttivo comparare questi due scenari di futuro: la scena in cui il futuro viene amputato da una guerra assurda e la scena in cui il futuro è diventato evanescente, non perché viene impedito ma perché perde sempre più il suo senso.

Se volessimo radicare per un momento ciò che è “nostro” nella guerra contro gli ucraini, potremmo forse scoprire quanto sia vizioso e aristocratico lamentarci da mane a sera del fatto che ci hanno tolto il futuro. Se è così, allora cerchiamo di svegliarci e di ridare anima a quel domani che abbiamo ancora il privilegio di poter vivere.

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