Coronavirus, Trieste arancione: dall’asporto al bar alla corsa in Carso

TRIESTE «È permesso? Si può entrare o rischiamo di essere ammanettati?». In piazza della Borsa a Trieste, un cliente è appena entrato in un negozio di scarpe. Passeggia circospetto tra gli ultimi modelli da tennis esposti sugli scaffali, mentre si passa scrupolosamente il gel disinfettante sulle mani. «Con tutti questi decreti e ordinanze, uno non ci capisce più nulla. Si vive nel terrore di essere fuori legge». Accenna un sorriso per sdrammatizzare, eppure le sue parole riflettono bene lo stato confusionale con cui Trieste si è svegliata per affrontare la prima, tiepida domenica nella morsa del colore arancione. E se la gente a passeggio si avvicina con qualche dubbio alle vetrine delle boutique per capire se siano aperte o meno, neanche i negozianti hanno le idee troppo chiare.
«Stando all’ordinanza che giovedì la Regione ha firmato in accordo con Emilia Romagna e Veneto, oggi avremmo dovuto tenere la saracinesca abbassata – dice il responsabile di un negozio –. Poi però siamo passati in zona arancione. Poi, ancora, il governatore ha ritirato la sua ordinanza precedente, ha fatto marcia indietro. Siamo ben contenti di poter lavorare, ci tocca prendere quello che viene. Ma stamattina, fino all’ultimo, non ero sicuro di aver ben capito se potessi aprire la porta del negozio oppure no».
Nella giungla di misure emesse dall’alto, i gestori di locali e attività hanno la sensazione di procedere con la goffaggine di un elefante. «I clienti non fanno che chiamarci per sapere se siamo aperti – dice Martina, dipendente di un negozio di intimo. – Credo sia il segno che in giro c’è molto smarrimento. Le cose sono cambiate nel giro di poche ore, ma se la gente non lo sa eviterà di uscire di casa. Così per noi, stare aperti sarà del tutto inutile».
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«Il caos di regole è tale che alcune persone mi hanno detto che non avevo il permesso di lavorare, non riuscivano a seguire la logica e minacciavano di chiamare le forze dell’ordine per i controlli. Il risultato è che, anche se abbiamo deciso di rimanere aperti, c’è un passaparola negativo che sta affossando ogni possibilità di ripresa economica».
Nella prima domenica all’insegna di regole anti-Covid inasprite, centinaia di persone hanno cercato di distrarsi con una corsetta a Basovizza, nella zona ciclabile che si sviluppa attorno al Sincrotrone. «Ci piace camminare all’aperto, ma di solito puntiamo alla Slovenia, o a San Dorligo – spiega un’anziana signora in tenuta da jogging –. Ma adesso, come si fa? Prima di uscire di casa ho controllato bene su Internet: se si fanno un paio di chilometri nella direzione sbagliata si rischia di uscire dai confini del proprio Comune. E di beccarsi una multa».
Anche in pieno centro città non mancano coppie di innamorati, gruppetti di amici e famigliole che, pur senza correre, si riversano nelle vie, abbandonandosi al ritmo lento delle colonne sonore natalizie emesse a ripetizione dagli altoparlanti in piazza Unità.
Un multiforme universo umano che, con la spontaneità del suo vagare, ricorda quasi una giornata pre-pandemia. Anche se non tutti ne apprezzano la presenza: «La gente se ne va in giro tranquilla, mentre i bar hanno dovuto chiudere per forza, come se il problema dell’assembramento dipendesse solo dalla loro attività – dicono Giacomo e Giuseppina, due dipendenti che lavorano in una gelateria che, dall’oggi al domani, è stata riconvertita all’asporto –. Poco fa un uomo è venuto a prendere del gelato. Mi ha chiesto quanto gliene consigliassi in vista di una tavolata da 11 persone. È la dimostrazione che le persone fanno quello che pare a loro. Ma che la responsabilità dei contagi continuerà a pesare solo sui settori che è più facile incolpare». —
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