Coronavirus, il ritorno a casa dei sanitari triestini in trincea nel resto d’Italia. «Ma non chiamateci eroi»

TRIESTE Venti giorni trascorsi nelle zone più critiche dell’emergenza Covid-19. È l’esperienza vissuta da una dozzina tra infermieri e medici triestini nel corso dell’ultimo mese e mezzo. Manuel Cleva, Giacomo Cigui, Claudia Cappelli, Luana Omatti, Angelo Bessio, Luigi Spinelli, Lisa Zoff, Silvia Quispe, Andrea Clemente, Cristina Negroni, Pietro Turco, Claudia Castellana e Franco Balsamin. Un piccolo “esercito” di operatori sanitari che hanno risposto “presente” ai bandi indetti nelle settimane scorse da Croce Rossa Italiana e Protezione Civile, con l’obiettivo di dare supporto e in alcuni casi respiro ai colleghi di altri ospedali e strutture sanitarie sparse in giro per l’Italia.
Partiti a scaglioni fra l’inizio di aprile e metà maggio – qualcuno si trova ancora in missione – i volontari triestini ci tengono a non farsi chiamare né angeli né eroi.

Manuel Cleva è un infermiere del 118. Partito il 30 aprile scorso per Roma, si è visto poi assegnare come destinazione Pavia. Dal capoluogo lombardo è rientrato lo scorso giovedì. A lui è toccata forse l’esperienza più dura: una residenza per anziani nel pavese, in cui è si è ammalato il 40% del suo personale sanitario. Manuel trascorreva gran parte del suo turno da solo. Otto ore al giorno a tu per tu con la malattia e, in alcuni casi, anche con la morte.
«Mi è capitato di dover portare conforto ad un signore di 76 anni negli ultimi istanti della sua vita. Ad un’altra signora abbiamo dovuto comunicare la morte del figlio ricoverato, sempre a causa del virus, in un altro ospedale lombardo». Incombenze che di solito spettano ai medici, ma la gravità della situazione ha finito in molti casi per scompaginare ruoli e responsabilità.

Anche Angelo Bessio ha operato in Lombardia, a Gavardo in provincia di Brescia, in una Rsa in carenza di personale a causa delle ripetute infezioni degli infermieri. Nato in Sicilia, a Gela, ma residente a Trieste da ormai 25 anni, Angelo Bessio lavora al Dipartimento dipendenze - alcologia dell'ospedale.
Destinato alla provincia di Brescia, ha aiutato una struttura in cui si sono ammalati di Covid decine di colleghi «Lì dove sono finito - racconta – la situazione era decisamente migliorata rispetto a marzo, ma il personale era sottodimensionato a causa dei tanti positivi al Coronavirus. Erano ancora tanti gli anziani sofferenti. E' stata un'sperienza pesante, ma molto gratificante. Porto con me immagini che non dimenticherò».

Silvia Quispe, peruviana e triestina d’adozione dove vive e lavora da 17 anni, è rimasta particolarmente toccata dalla sua esperienza nel reparto malattie infettive dell’ospedale di Pescara. «Ho scoperto sulla mia pelle come, da un punto di vista sanitario, non tutta l’Italia funziona alla stessa maniera – racconta – e sono rimasta colpita dalla diversa gestione dell'emergenza in Abruzzo rispetto a come l’abbiamo affrontata noi in Fvg».
A Pescara Silvia ha trovato «un sistema sanitario con molte più problematiche rispetto al nostro – spiega –, aggravato dal fatto che, quando sono arrivata io ai primi di aprile, la situazione era di piena emergenza. Ciò che non dimenticherò mai è l’aver visto ricoverate famiglie intere, ma l’aver dimesso un giovane di 28 anni inizialmente in terapia intensiva mi ha ripagato di tutte le fatiche».

Triestino, ma ormai da anni attivo nella Bassa Friulana, Giacomo Cigui è un infermiere della centrale operativa del 118 - Sores di Palmanova dove è entrato fra i primi. A lui è toccata un’esperienza solo all'apparenza più “leggera” in una casa di riposo a Torralba, in provincia di Sassari dove ha dovuto evitare che il focolaio lì presente si potesse propagare, in caso di ricoveri, anche all'ospedale di riferimento. «Siamo riusciti ad evitare che i pazienti si aggravassero al punto da dover essere ricoverati in ospedale – racconta –. Questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia importante trattare la malattia a domicilio, perché analizzando le singole complessità in tempi ristretti si riesce ad evitare ospedalizzazioni improprie».

È tutt'ora impegnato nel pronto soccorso del nosocomio di Piacenza, Andrea Clemente, anch'egli dipendente del 118. «L'ospedale dove mi trovo è stato suddiviso in tre aree - spiega - rinominate "pulita" per i pazienti sicuramente negativi, "intermedia" contenente i pazienti che devono ancora essere sottoposti ai tamponi e "sporca" con pazienti sicuramente positivi. Le dimostrazioni di affetto da parte della cittadinanza in questi due mesi ci hanno fatto immenso piacere – ci tiene a sottolineare –, ma noi non ci sentiamo degli eroi. Siamo dei professionisti che semplicemente amano la loro professione, nell’emergenza così come nell’ordinaria amministrazione».

Non è triestina, Lisa Zoff, ma a Trieste ci vive e lavora, sempre nel 118. Lisa è partita pochi giorni fa, destinazione Merano, nel cui ospedale cittadino si occupa della gestione di una zona di pre-triage, nella quale individuare eventuali pazienti a rischio. «Posso dire che il nostro sistema non è inferiore a quello altoatesino – racconta –. Anche qui si cerca di limitare il più possibile le ospedalizzazioni, limitandole ai casi più difficili». Fa specie pensare che l’Alto Adige, provincia-modello in quanto a organizzazione sanitaria, abbia dovuto richiedere supporto da altre regioni d’Italia.

Cristina Negroni è stata una delle prime a rispondere alla chiamata dei bandi, recandosi già a inizio aprile in due degli ospedali di Torino. «Dovevo fare da supporto ad altri colleghi perché la struttura era decimata. Dei 20 operatori effettivi ne erano rimasti solamente 5: nonostante le dotazioni di Dpi, praticamente tutti i medici e gli infermieri presenti si stavano contagiando. È stata un’esperienza mai vissuta prima e che qui in Fvg fortunatamente abbiamo vissuto solamente di striscio». Dopo aver visto l’inferno con i propri occhi Cristina ora teme gli assembramenti post aperture. «È inevitabile che la curva dei contagi si rialzerà un po’ – conviene –, ma spero che la gente dimostri di avere giudizio». —
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