Coronavirus, angeli in corsia: ecco le voci di medici e personale sanitario a Trieste

TRIESTE Hanno addosso tutti i giorni la mascherina, il camice protettivo e gli occhiali, i famosi Dpi ovvero i dispositivi di protezione individuali, quelle barriere che proteggono il personale dal contagio e magari, come il mantello dei supereroi, servono anche per dare la forza necessaria ad affrontare quello che nessuno avrebbe mai immaginato di dover fronteggiare. Sono i veri eroi di questa battaglia contro il nemico invisibile che sta stravolgendo il mondo: i medici, gli infermieri, gli Oss; tutto il personale sanitario che anche a Trieste è impegnato nella lotta contro il coronavirus. Andrea Pierini ha raccolto le loro voci, che raccontano una quotidianità fatta di stress, sacrifici, turni massacranti e scelte difficili, ma anche dell'affetto commovente dei cittadini e di una solidarietà finora a poco fa impensabile.
La paura più grande è quella di dover dire: non c’è posto. Quello di Terapia intensiva è forse il reparto più delicato di un ospedale, quello dove finiscono le persone che non riescono a respirare in maniera autonoma. Giorgio Berlot, direttore della Struttura complessa Anestesia rianimazione e Terapia antalgica, e Umberto Lucangelo, responsabile del Complesso operatorio e direttore dell’Emergenza-urgenza, Day surgery e Anestesia e rianimazione, lavorano da 30 anni insieme, spalla a spalla, e in tutti questi anni non avevano mai visto uno scenario simile.
Per il personale sanitario il Covid-19 è un compagno di viaggio invisibile: «Quando arrivo a casa tengo la televisione spenta - confida Berlot - anche perché c’è il rischio di somatizzare questa situazione. Ogni tanto mi misuro la febbre o annuso il barattolo del caffè visto che una delle manifestazioni del virus è legata alla perdita dell’olfatto. Ogni giorno c’è uno sforzo intellettivo importante. Di esperienza ne abbiamo ed eravamo attrezzati per affrontare qualsiasi situazione come terremoti o gravi traumi, ma mai avremmo pensato di dover affrontare una pandemia di questo tipo».
La paura più grande per un medico è quella di non poter curare un paziente, nelle Terapie intensive le scelte si fanno tutti i giorni cercando di non accanirsi contro il malato. «Speriamo di non aver lo stesso iter di Bergamo e Brescia dove stanno decidendo chi accogliere e chi no: sarebbe un incubo. Per noi sarebbe la prima volta, di decisioni complicate ne prendiamo tutti i giorni, ma sono legate ai farmaci e al tipo di cure non a decisioni simili», racconta Berlot.
«Non abbiamo neanche il tempo per pensare, è una corsa continua. Io devo elogiare la lucidità e la professionalità delle persone che lavorano con me: nessuno si tira indietro nonostante la fatica e lo stress». Marco Confalonieri, direttore della Struttura complessa di Pneumologia dell’Azienda sanitaria universitaria integrata Giuliano Isontina, ha visto il suo reparto “sdoppiarsi” con l’attività ordinaria rimasta all’ospedale di Cattinara e quella dedicata al Covid-19 al Maggiore nella palazzina degli Infettivi.
Nella Pneumologia il rapporto con i cittadini è sempre stato buono. «Ho sempre notato un livello di educazione e rispetto nei confronti dei medici che probabilmente è migliore rispetto ad altre parti d’Italia. In questo periodo mi sembra però che i generale ci sia una comprensione anche maggiore della complessità del momento. In molti hanno dovuto cambiare il loro stile di vita, e capiscono quanto noi medici, infermieri e Oss ci troviamo sotto pressione. È un periodo in cui mancano anche medici specialisti in Pneumologia: abbiamo fatto anche un concorso con 10 persone in graduatoria e, oltre a tre interni che sono stati stabilizzati, tutti gli altri hanno scelto le zone di origine. Diciamo che saremmo ben lieti di prendere personale se ci fossero delle disponibilità».
«Siamo preparati e addestrati ad affrontare qualsiasi rischio ambientale e biologico. Quello che è cambiato è l’approccio nei confronti delle persone che andiamo a soccorrere perché ci ritroviamo chiusi dentro questi scafandri che dobbiamo indossare per tutelare noi stessi ed evitare la propagazione del contagio». Alberto Peratoner è il dirigente alla guida del 118 di Trieste, un centinaio di persone tra medici, infermieri, autisti e Oss che ogni giorno sono sulla strada per portare i primi aiuti a chi contattata il numero di emergenza. Un lavoro complesso che prima del coronavirus prevedeva un rapporto diretto con il paziente e oggi è completamente stravolto dal rischio contagio.
«Dover indossare tute e maschere inevitabilmente ha mutato l’approccio: non può più esserci il contatto fisico che cercavamo prima con i pazienti per tranquillizzarli con i gesti oltre che con le parole. Ora è tutto più offuscato. Prima avevamo anche più tempo per stare nelle case delle persone, ora l’importante è ridurre i rischi. C’è un impegno emotivo e fisico molto più alto per gli operatori».
Come in altri reparti anche tra il personale del 118 nessuno si è tirato indietro. «In sei hanno rinunciato alle ferie e tutti hanno dato la massima disponibilità a fare turni extra. Al momento abbiamo aumentato i numeri aggiungendo un’ambulanza dedicata al trasporto di persone positive al Covid-19 che effettua il collegamento tra gli ospedali Cattinara e Maggiore».
«Il nostro è un lavoro di squadra. Una squadra composta da medici, infermieri, operatori socio-sanitari e barellieri, capaci di condividere le fatiche, le emozioni e le paure, sulle quali prevalgono per però la dedizione e attaccamento al lavoro». Così definisce l’attività di Pronto soccorso e Medicina d’urgenza Franco Cominotto, il medico che dirige da meno di un anno la Struttura complessa dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina. Prima porta di accesso alla sanità pubblica e in passato al centro di polemiche, anche politiche, il reparto è stato anche quello che ha ricevuto fin da subito l’affetto dei cittadini che hanno spedito pensieri e regali e hanno recepito l’appello delle amministrazioni a non recarsi in ospedale se non per gravi motivi.
«Quanto sta accadendo in questa fase - spiega Cominotto - ci deve far riflettere sui bisogni di salute reali o percepiti dell’utente che si reca al Pronto soccorso. C’è stata una riduzione degli accessi che definirei quasi incredibile, dell’ordine del 60%: attualmente accedono al Pronto soccorso 80/90 pazienti al giorno (75 circa a Cattinara e 15 al Maggiore) rispetto ai 200/220 al giorno (160 Cattinara, 60 Maggiore) del periodo pre Covid. Fa un grande piacere ricevere la solidarietà dei cittadini, l’auspicio è che non si esaurisca al termine dell’emergenza». Giacomazzi malattie infettive
«Quello che più colpisce di questo virus è la grande sofferenza che vediamo negli occhi degli anziani che non possono vedere i familiari: cerchiamo però di metterli in contatto il più possibile. Per quanto ci riguarda, invece, abbiamo sentito in maniera inaspettata e provvidenziale l’affetto degli italiani e dei triestini». La voce della dottoressa Donatella Giacomazzi, responsabile del reparto Malattie infettive dell’Azienda sanitaria giuliano-isontina, si rompe per la commozione al pensiero dei tanti gesti di solidarietà arrivati in questi giorni segnati da un’emergenza d proporzioni impossibili da immaginare. «Siamo emotivamente e fisicamente stremati - spiega -. Anche per questo le dimostrazioni d’affetto sono preziosissime. In questi giorni ci hanno lasciato in portineria tantissimo cibo, non sappiamo nemmeno chi è stato, vogliamo però ringraziare tutti di cuore».
Se all’esterno i cittadini hanno voluto manifestare vicinanza con i medici, anche dentro gli ospedali nessuno si è tirato indietro: «A volte ci sentiamo smarriti e stanchi - racconta Giacomazzi -, troviamo però solidarietà nei volti dei colleghi e una grandissima collaborazione con geriatri, internisti, pneumologi e rianimatori».
Al centro di tutto ci sono i pazienti: «Rispetto al reparto di Geriatria e alle Rsa, il nostro è un reparto che abbiamo pazienti che richiedono una intensità di cure più alta: ogni volta che entriamo in una stanza ci fermiamo un po’ di più anche perché sono persone in isolamento. Con gli anziani il rapporto è più complesso perché spesso sono sedati visto che hanno un respiro molto difficile. Il passaggio successivo qualora dovessero peggiorare le condizioni è in pneumologia e poi in rianimazione dove vengono intubati, da noi è più raro».
Un lavoro costante per impedire il contagio, creando delle zone di quarantena e spostando pazienti al fine di ridurre al massimo i rischi. Nella Struttura complessa di Medicina interna a Cattinara il lavoro è continuo per cercare di tutelare i pazienti, soprattutto anziani con patologie croniche, dal Covid-19. Antonio De Chiara è il responsabile infermieristico, insieme ad Angelo Iaquaneillo, della struttura diretta dal dottor Dario Bianchini, a capo anche del Dai (Dipartimento attività integrate) di Medicina che racchiude anche la Geriatria, la Nefrologia e dialisi, la Clinica medica, la medicina Clinica e la Formazione e ricerca traslazionale di ultrasonografia vascolare e angiologia.
«Trieste ha una popolazione anziana e l’ospedale è un punto di riferimento importante e per questo è sempre affollato da persone che magari non necessitano di cure ospedaliere. Con l’arrivo dell’epidemia abbiamo dovuto chiudere il reparto ai familiari, inizialmente consentendo le visite a un solo parente, ora non può entrare nessuno. La maggior parte delle stanze ha la porta chiusa e questa per noi è una novità assoluta. Eravamo abituati a poter guardare dentro le stanze magari anche solo per un sorriso che a volte era prezioso per chi è costretto a letto tutto il giorno. Non sappiamo neanche quello che accade dentro le stanze, gli ospiti hanno il campanello per chiamare, però non è la stessa cosa».
Solitudine è la parola che più ricorre nei discorsi legati al coronavirus. «Abbiamo sostituto le visite di persona - spiega De Chiara - con quelle virtuali attraverso i telefonini di ultima generazione, e nel caso in cui il paziente non riesce a farlo da solo, siamo noi a supportarlo».
Esiste poi il tema più delicato: in ospedale purtroppo non sempre si guarisce. «E in genere familiari e parenti erano presenti per l’ultimo viaggio. Ora questo non è più possibile». Cattinara e il Maggiore sono “Ospedali in emergenza” questo significa che le strutture sono completamente blindate. «Trovi corridoi vuoti - prosegue De Chiara - e nei pochi spostamenti interni non incontri quasi nessuno, non è Cattinara di alcune settimane fa».
Michael Valentini è il coordinatore infermieristico del reparto di Malattie infettive dell’ospedale Maggiore di Trieste, uno dei reparti in prima linea contro il coronavirus e dove in questi giorni sono arrivate numerose manifestazioni di solidarietà, con tanto di striscione appeso all’esterno della struttura con la scritta: «Di questa battaglia i veri guerrieri. Grazie a medici e infermieri». Le emozioni si incrociano con la necessità di non pensare più di tanto, «di trovare lo spirito guerriero – racconta Valentini – che vedo negli occhi dei miei colleghi che tutti i giorni indossano mascherina, occhiali protettivi e camici per dare aiuto ai pazienti».
Nel reparto infettivi i degenti sono ospitati in camere singole: «L’isolamento è una delle cose più difficili da accettare, le persone sono sole e i parenti non possono venire a trovarle. I più giovani hanno solitamente il telefonino con cui riescono a contattare i propri cari, per gli anziani invece il discorso è più complesso: per questo cerchiamo di aiutarli in tutti i modi possibili». La squadra degli infermieri del reparto di Malattie infettive è composta da 15 unità a cui si aggiungono 6 Oss, oltre agli 8 medici. Addosso tutti i giorni la mascherina, il camice protettivo e gli occhiali, i famosi Dpi ovvero i dispositivi di protezione individuali. «Li dobbiamo togliere e reindossare più volte – spiega Valentini –, questo perché altrimenti, tenendo a lungo la tuta addosso, c’è il rischio potenziale che la soglia di attenzione si abbassi. Quindi prima di entrare nelle stanze eseguiamo la procedura di vestizione completa».
Virus e le malattie contagiose in realtà sono il pane quotidiano per chi lavora negli infettivi, anche se in questo periodo i timori un pochino aumentano pure perché dietro a mascherine e camici ci sono delle vite magari con figli, fidanzati o mogli e mariti che aspettano a casa. «Non posso nascondere che c’è un po’ di paura, però il gruppo sta reagendo bene con colleghi che chiamano per venire a lavorare. Siamo delle persone che si stanno unendo per la battaglia – sottolinea Valentini –, anche perché qua c’è un clima da guerra e guardandoci negli occhi leggiamo lo spirito guerriero di chi ha voglia di reagire».
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