Corona virus, la propaganda di Pechino fa flop: paura più forte della censura di Xi

Le autorità hanno aspettato oltre un mese prima di mettere in campo le misure anti-contagio

«Cinque milioni di residenti hanno lasciato Wuhan prima che scattassero le misure di sicurezza». Così Zhou Xianwang, sindaco della megalopoli in quarantena, annuncia indossando una mascherina che la situazione è più grave del previsto. E ancora una riunione d'urgenza del Comitato permanente del Politburo, il gotha a sette seggi del Partito comunista cinese, eccezionalmente trasmessa in tv. E poi la costituzione di un gruppo di lavoro sotto la diretta guida del premier Li Keqiang per far fronte a quello che appena una settimana fa era considerato un problema medico locale. Non stupisce che la popolazione non si fidi del governo.

Le prime notizie di polmonite virale a Wuhan risalgono all’8 dicembre, ma le autorità non ne hanno dato notizia fino al 31 dello stesso mese ed è solo dal 20 gennaio, quando ne ha parlato pubblicamente il presidente Xi Jinping, che si sono cominciate a prendere misure necessarie. Il quotidiano locale, «Wuhan Wanbao» una tiratura di 850 mila copie, ha riportato la notizia in prima pagina solo dopo le sue parole, mentre fino a un paio di giorni prima titolava su un banchetto per 40 mila famiglie con cui la città aveva battuto un record: servire il maggior numero di persone durante un singolo evento. D’altronde dal 7 al 17 gennaio la città ospitava il Congresso annuale delle più alte autorità municipali e regionali, tutto doveva filare liscio.

Le prime persone che hanno condiviso sui social informazioni sulla polmonite virale sono state fermate dalla polizia con l’accusa di «diffondere dicerie», ai medici è stato proibito parlare con amici e parenti e agli ospedali è stato imposto l’obiettivo di «nessun contagio tra il personale». Il virus però non ha obbedito. Ancora il 10 gennaio l'esperto di malattie respiratorie scelto dal governo Wang Guangfa, aveva dichiarato alla televisione di Stato che la situazione era «sotto controllo», ma appena undici giorni dopo era costretto ad ammettere di essersi ammalato di quella stessa malattia. Dal giorno successivo nessuno avrebbe più potuto lasciare la città.

Ma nell’era del web 2.0 l’informazione trova sempre altri canali. Così mentre la tv di Stato santifica la figura di Liang Wudong, medico in pensione richiamato per affrontare l'emergenza e deceduto «sul campo», i social mostrano la folla in attesa di essere esaminata, persone riverse nelle corsie di ospedale, sfoghi del personale ospedaliero che non si ferma da giorni e che è costretto a indossare cateteri perché non può perdere tempo nemmeno per andare al bagno. Se i media ufficiali informano che verranno costruiti due ospedali da oltre mille posti l’uno in una manciata di giorni, online si moltiplicano le denunce di cittadini che non hanno fatto in tempo a raggiungere i presidi medici o a comprare il necessario prima che i negozi esaurissero le scorte e i trasporti fossero sospesi.

Contemporaneamente si moltiplicano i casi di denunce di chi ha assistito alla morte di un famigliare per infezione polmonare senza che questi fosse trattato secondo il protocollo e che il suo caso entrasse nelle statistiche dell'epidemia. Certo, non sono informazioni verificabili, ma nemmeno quelle ufficiali lo sono. Così molti si sono convinti che la diffusione del coronavirus sia molto più capillare di quanto finora certificato. D’altronde è stato identificato ad Hong Kong e in altri Paesi prima che Pechino ne ammettesse la presenza fuori dalla regione di Wuhan. Può esistere un virus che colpisce i territori più lontani dal suo focolaio prima di quelli vicini? L'ironia della rete non perdona. Si tratta, evidentemente, di un «virus patriottico».

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