Coprifuoco, Trieste deserta ma scintillante di luci: viaggio nella città fantasma

Le vie della movida deserte, l’attesa dei rider e la polizia in giro: ecco come è apparsa Trieste nel primo sabato di coprifuoco. Dopo le 22 si può uscire solo per motivi di salute, lavoro o necessità. Qualcuno porta a spasso il cane

Scatta il coprifuoco, e Trieste si trasforma nella città fantasma

TRIESTE Sabato sera, ore 22.03. Il coprifuoco è scattato da una manciata di secondi appena. Ma sono già diversi minuti che spingersi tra i vicoli della movida triestina significa abbandonarsi a quella che ha tutto l’aspetto di una passeggiata dentro una gola di silenzio. Tendere l’orecchio può aiutare a intercettare qualche suono, grida di gabbiani, perlopiù, o l’incedere regolare dei cani a passeggio, veri passpartout alla libertà in tempo di strette ministeriali.



«La città in questo stato può essere descritta solo con un aggettivo: triste – dice laconica una signora, impegnata a attorcigliarsi al polso il guinzaglio a cui è legata la sua cagnolona, una golden retriever che la segue pigramente –. Io vengo dal Piemonte, non sono originaria di Trieste. Ma la conosco abbastanza bene per dire che le strade così vuote mettono quasi ansia». La sua voce si fa via via più sottile mentre si allontana. La si vede imboccare una traversa di via Torino, quasi impossibile da riconoscere, con decine di tavolini e sedie immersi in una calma immobile – illuminata, come altrove, dagli addobbi natalizi sempre accesi – che però non trasmette alcun senso di pace. È un’atmosfera che riguarda ogni metro quadrato della città, nel primo sabato sera di coprifuoco novembrino.



Ma è negli angoli della vita notturna, quelli che nella tradizione si opponevano con più tenacia al sonno e alla quiete, che l’effetto di straniamento si amplifica. Come in piazzetta Barbacan, dove negli anni, infiniti gintonic e spritz bianchi sono stati consumati all’ombra dell’arco di Riccardo. E dove adesso, passeggiando, è possibile incrociare avvisi che aderiscono alle porte dei locali, e che avvisano i clienti di “chiusure” lunghe intere settimane. O come nella zona della Portizza, in piazza della Borsa e dintorni, o nel ghetto, dove gli unici esseri umani che si incontrano sono i dipendenti dei locali impegnati nei servizi di consegna a domicilio. «Da qui fino a qualche settimana fa non passavi, dovevi farti largo a spintoni tra la gente – dice un dipendente, che attraverso il vetro del locale in cui lavora ha visto lo scenario cambiare da un giorno all’altro –. È triste. Ma credo sia anche un po’ inquietante».



Alla fine del vicolo che sbuca su piazza della Borsa, una giovane coppia passeggia lenta. Non si intravedono cani nei paraggi, è sulle loro due sagome soltanto che le luci dei negozi attorno si concentrano. «Non facciamo nulla di particolare, stiamo soltanto camminando un po’ all’aria aperta», spiega spontaneo in inglese il ragazzo, mentre si sistema gli occhiali sul naso. Gli sfugge il motivo per cui qualcuno dovrebbe essere interessato a quello che sta facendo per strada. Sono entrambi studenti di neuroscienze, entrambi iraniani. Ed entrambi, non sapevano nulla del coprifuoco. Bastano un paio di spiegazioni sommarie per vederli avviarsi con passi decisamente più frettolosi e colpevoli verso casa. Attraversano piazza Unità, dove nel frattempo le prime volanti hanno iniziato a circolare, emanando dai loro lampeggianti un chiarore blu che si confonde con i punti luce della stessa tinta disseminati sul lastricato. Dal finestrino abbassato, gli agenti assicurano che tutto è in ordine, tutto sta filando liscio.

Nessuno, al momento, sembra voler controllare i tre rider di Glovo, ragazzi tra i 20 e i 30 anni che hanno preso posto attorno alla fontana dei Quattro continenti. Il celebre sacco della multinazionale che si trascinano sulle spalle è forse più che sufficiente a spiegare le ragioni per cui, ben diversi minuti dopo l’entrata in vigore del coprifuoco, non si siano ancora barricati in casa. «L’azienda ci ha dato l’autocertificazione da compilare – spiega in inglese uno di loro, originario del Pakistan, che si fa portavoce di tutto il suo gruppo di colleghi –. Ma non l’abbiamo portata con noi perché non capiamo cosa c’è scritto e non sappiamo cosa rispondere». Mostra l’autodichiarazione scaricata sullo smartphone e ne approfitta per capirci qualcosa in più sulla differenza tra “residenza” e “domicilio”. Si fa tradurre le parole più desuete, espressioni così macchinose da mettere in difficoltà perfino il sempre salvifico Google traduttore.

Tra un chiarimento e l’altro, le lancette dell’orologio del palazzo del Municipio toccano le 22.45. Ormai quasi tutti i lavoratori sono rientrati nelle loro case, e così i padroni di cani. Piazza dell’Unità d’Italia è così bella e sola da ricordare un palcoscenico a fine spettacolo, quando attori e pubblico se ne sono andati prima ancora che fossero spente le luci. «È strano anche per me che vengo da un altro Paese vedere questa piazza così vuota – dice uno dei fattorini –. Sentire tutto questo silenzio intorno mi fa sentire solo». —


 

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