Con le poesie di Biagio Marin in tasca per seguire il confine tra le acque e il Carso

Le molte suggestioni dell’area umida più settentrionale del Mediterraneo 

“Nessuna roba al mondo xe più bela / de bâte gnifa duto 'l santo dí / e conpagnâ co' l'ocio garghe vela / fin che te vien la vogia de drumí”: “Nessuna cosa al mondo è più bella / che battere fiacca tutto il santo giorno / e accompagnare con l'occhio qualche vela / fin che ti vien voglia di dormire”, scriveva Biagio Marin, il poeta non solo di Grado ma di tutte le lagune. E non possiamo non avere le poesie di Marin in tasca camminando placidi verso la foce dell'Isonzo, a una decina di chilometri in linea d'aria da Grado, immersi in un paesaggio incantato che ci fa sentire in un altro tempo. Ci troviamo nell’area umida più settentrionale del Mediterraneo che segna, come fosse un confine - l'ennesimo in questa terra di confini -, la separazione tra le coste basse tipiche delle Venezie e quelle alte del Carso, dell'Istria e della Dalmazia.

Qui dove oggi migliaia di uccelli ogni anno transitano durante le migrazioni, o stazionano, svernano, estivano, nidificano non disturbati dall'uomo, nel passato la caccia era senza sosta. Fabio Perco, uno dei padri della riserva, scomparso nel 2019, raccontava di come si fosse "toccato il fondo" tra gli anni '60 e '70 del Novecento: un solo uomo, un tale Romano, che si guadagnava da vivere sparando alle anatre, "da solo abbatteva in una stagione, da autunno a primavera, anche più di tremila uccelli!". Dobbiamo quindi dire grazie alle donne e agli uomini che nei decenni scorsi si sono prodigati - facendone una causa di vita - per creare aree protette nella nostra regione.

È grazie a studiosi del calibro di Fabio Perco se oggi possiamo ammirare i fenicotteri rosa, o i gruccioni che lavorano alacremente alla costruzione dei propri nidi, o i cavalli Camargue, bianchissimi, che Perco andò di persona a osservare in Francia all'inizio degli anni '80. Uccelli a migliaia che non possono essere contenuti in una breve lista. L'aspetto selvatico è preponderante ma c'è dell'altro: Punta Sdobba fu la prima linea italiana nella Grande Guerra, un capitolo poco felice da ricordare per noi perché l'Italia non conquistò mai la fortezza dell'Hermada e mai prese Trieste in combattimento. Ma per chi ama la storia e non guarda alle bandiere le scoperte sono ovunque, anche a pochi metri di profondità: resti di pontoni armati, reticoli di munizioni, resti di fortini (addirittura un fortino italiano sopra a un fortino napoleonico), di zattere affondate, un po' di tutto.

Eppure camminando in mezzo a paludi, stagni, canali, fossi, canneti, barene, la sensazione è di pace. Quando a fine autunno vedi arrivare le prime oche lombardelle dalla Siberia o le gru, capisci che la pace ha vinto, che ha vinto chi ha tra le mani regge un binocolo e non un fucile, che la fiacca di cui parlava Marin è santa.

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