Con i vaccini Russia e Cina si riprendono l’ex Jugoslavia
BELGRADO Solo briciole, così da obbligare i Paesi della regione a guardarsi in giro e a fare da soli, con prospettive geopolitiche dal significativo e forse dirompente impatto. Potrebbe essere sintetizzata così – per il momento – la situazione sul fronte della vaccinazione di massa nei Balcani ancora fuori dall’Unione europea, regione rimasta praticamente a secco, con qualche lodevole eccezione, nella corsa all’antidoto contro il Covid. Parte della colpa va scaricata sul cosiddetto sistema “Covax”, sponsorizzato dalla Global Alliance for Vaccines and Immunization (Gavi), Oms e Commissione europea, per fornire «un accesso equo ai vaccini» anche ai Paesi meno avanzati e con minori risorse, si legge sul sito del programma.
È l’unica via, il Covax, «per risolvere definitivamente» una «crisi globale». Ed evitare “sacche” dove il vaccino possa circolare e magari variare ulteriormente. Dalle parole ai fatti il passaggio sembra però arduo. E i Balcani extra-Ue, un’area dove vivono più di 17 milioni di persone e quasi completamente dipendente dal Covax, potrebbero diventare una di quelle sacche. Lo suggeriscono le «previsioni provvisorie» di «distribuzione» dei vaccini, rese pubbliche in questi giorni da Gavi. Balcani che, nel primo semestre del 2021, dovrebbero ricevere via Covax poco più di 825 mila dosi, in gran parte del siero AstraZeneca, sufficienti a vaccinare solo 410 mila fortunati. A ottenere il numero più cospicuo, il Paese balcanico più popoloso e quello che – non grazie al Covax ma al Sinopharm cinese – è già al secondo posto in Europa per dosi somministrate in rapporto alla popolazione.
È la Serbia, che già oggi può contare su più di un milione di dosi, tra Sinopharm, Sputnik V e un po’ di Pfizer e a cui, da qui a giugno, dovrebbero essere consegnate anche 345 mila fiale di AstraZeneca tramite Covax. Assai meno ottimistica è invece la situazione negli altri cinque Paesi balcanici extra-Ue, tutti per ora a zero dosi inoculate o quasi.
Ne riceverà fino a giugno circa 170 mila la Bosnia, 141.000 l’Albania, poco più di 100 mila affluiranno in Kosovo e Macedonia del Nord, mentre il Montenegro si dovrà accontentare di 84 mila dosi. Dosi sufficienti forse solo per medici, infermieri e lavoratori a rischio, una goccia in un mare di ordinazioni fatte già a fine 2020. «Siamo stati i primi nella regione a pagare per il programma Covax», ma finora non è arrivato nulla e tutto quanto è arrivato «lo abbiamo acquisito in maniera bilaterale», ha stigmatizzato il presidente serbo Vučić, che ha annunciato anche il progetto di produrre lo Sputnik in Serbia. E ha criticato non solo il Covax, ma anche la scarsa solidarietà dei Paesi occidentali. Come «sul Titanic, solo i ricchi salvano sé stessi e i loro cari», durante la pandemia. La via, allora, appare obbligata.
E sembra averlo compreso la stessa Republika Srpska, l’entità dei serbi di Bosnia che, a differenza di Sarajevo, ha deciso di ordinare decine di migliaia di Sputnik V russo, mentre le altre capitali della regione stanno trattando direttamente con le grandi case farmaceutiche, come Pfizer. Anche l’Albania – più che critica verso l’inazione Ue – Macedonia del Nord, Bosnia e pure il Montenegro guardano oggi con speranza a Pechino e Mosca, uno scenario inizialmente escluso. Ma il quadro non è così nero, sostengono le capitali Ue. «Ottime notizie per i Balcani occidentali, Gavi prevede le prime forniture per la Regione già a febbraio», anche grazie al «sostegno tedesco», ha sottolineato Susanne Schuetz, numero uno della diplomazia tedesca sul fronte Balcani. Le cose miglioreranno presto, ha assicurato venerdì Genoveva Ruiz Calavera, numero uno della Dg per i Balcani occidentali alla Commissione europea, che ha ricordato che Bruxelles «farà del suo meglio per far arrivare i vaccini» a tutti i Paesi della regione, «partendo dalle allocazioni attraverso Covax che l’Ue ha sostenuto con 880 milioni di euro». «La domanda vera è quando» ciò accadrà, le ha replicato su Twitter Majlinda Cullhaj, segretaria generale della Albania-Austria Society. Anche una piccola fornitura di dosi «avrebbe immunizzato i lavoratori in prima linea» negli ospedali e ciò «sarebbe dovuto accadere da tempo, ma non è stato così», ha biasimato Cullhaj. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo