Clara e sua madre, due donne nell’inferno dell’elettroshock

La giornalista del Tg2 Luciana Capretti ricostruisce in “Tevere” (Marsilio) una storia vera, che inizia con un caso di scomparsa a Roma nel 1975
Di Arianna Boria

Una scarica elettrica attraverso il cervello. Le ustioni, il mal di testa lancinante per giorni, poi l’incapacità di governare mani e piedi, la bava, l’ottundimento. Clara era stata sottoposta per la prima volta all’elettroshock nel reparto neurologico del Policlinico di Roma, dove un luminare, in odor di Nobel, aveva sperimentato sull’uomo la pratica di annientamento della coscienza utilizzata al mattatoio del Testaccio per i maiali, prima di ucciderli. Quella volta, Clara era stata ricoverata d’urgenza dopo aver tentato di buttarsi dalla finestra con la figlioletta neonata in braccio. Anni dopo, fallito un altro tentativo di ammazzarsi con whisky e psicofarmaci, urlò con tutta la sua forza contro la seconda somministrazione della cosiddetta “terapia biologica”, questa volta in una clinica privata: «Infermiera la prego, glielo dica lei al medico che l’elettroshock l’ho già provato, non funziona, su di me non funziona, glielo dica... Fatemi la cura del sonno, fatemi dormire, ma l’elettroshock no!».

Terapia biologica, farmacologica, timolettica: la depressione di Clara, quella voragine di angoscia e buio in cui era precipitata la sua vita, non passò nemmeno allora, dopo un altro ciclo di scariche. Anche sua madre Egle aveva conosciuto lo stesso trattamento, molti anni prima nel manicomio provinciale di Novara, dove con l’elettricità venivano curati vari tipi di matti, da quelli che marcivano legati al letto a quelli che dissentivano dalla politica del Duce. Egle, impazzita per la perdita della secondogenita, dalla terapia aveva ricavato una sorta di automazione inoffensiva, di sorda assenza, e a se stessa, a differenza della figlia, non aveva mai fatto del male.

Clara è una signora della buona borghesia romana, sottoposta all’elettroshock negli anni Settanta: nessuno riuscirà a strapparla alla sua volontà di autodistruzione. La madre Egle subisce la stessa cura nell’estate 1940, affondando lo stress post-traumatico in una perenne catatonia.

Due donne, due destini e una storia che parte da lontano per arrivare ai giorni nostri. La racconta Luciana Capretti, giornalista del Tg2, nel suo secondo romanzo, “Tevere” (Marsilio, pagg. 220, euro 17,50), nato da un fatto di cronaca. È il 1975: i documenti di una donna vengono trovati sulla sponda del Tevere. Lei, Clara, la protagonista del libro, è scomparsa. Una signora un tempo piacente, elegante, madre di due figli adolescenti, sposata a uno sceneggiatore di successo, Giuseppe, che da troppo tempo la tradisce, attento a non urtare la moglie nel perimetro domestico nè più nè meno che i mobili, indifferente, infastidito, irritato da quell’angoscia in cui lei è sprofondata negli anni, senza ritorno.

Clara non si trova. Una turista brasiliana l’ha vista sul fiume, avvolta in una pelliccia sintetica e con un vestito leggero, quasi una sottoveste, persa in una solitudine così lontana che non ha avuto il coraggio di avvicinarsi per chiederle l’accendino. Sono le prime pagine del libro, le uniche in cui vediamo Clara muoversi nel presente, davanti ai nostri occhi. Poi, la sua vita prenderà forma, tassello dopo tassello, attraverso lunghi flashback: l’infanzia, la famiglia contadina, il padre fascista, la militanza politica, il matrimonio, la nascita dei figli Virginia e Giovanni, la malattia. I capitoli hanno semplicemente il nome di tre colori: il giallo della sparizione, il nero dei ricordi, il bianco chimico del presente con i suoi tormenti, i ricoveri, le cure devastanti.

Clara non torna, come aveva fatto in passato. I figli si disperano. Giuseppe, chiuso nel suo studio nelle ore successive alla sparizione, per la prima e unica volta nel libro ricorda a voce alta di averla un tempo amata. E il commissario Jozzetti, incaricato delle indagini, guardando una fotografia della donna, quei suoi occhi in cui intuisce la disperazione senza fondo, si chiede se tutto questo basta. Basta un matrimonio fallito, la scoperta del tradimento, una vita prosciugatasi nelle banalità coniugali, i figli ormai incamminati sulla loro strada e le lunghe ore di solitudine che si accumulano, per richiudersi la porta di casa alle spalle, in una notte di pioggia e col fiume gonfio, e lasciare un biglietto? Per lei sì, è sufficiente: “Perdonatemi, cinquant’anni bastano, mi troverete nel Tevere”. Ma per gli altri?

La vita di Clara si riavvolge come un nastro. Rapida, serrata, con la tensione di un thriller. Eccola bambina, nelle campagne di Novara, insieme alle sorelle Virginia e Mirna, mamma Egle piegata dalla fatica e il padre Dovaldo, che ha fatto la campagna d’Africa, sentendosi un eroe tra le cosce delle ragazzine scure. Adesso, nel giugno 1944, può di nuovo prendere le armi e andarsene in giro con le camicie nere, a scovare e castigare i partigiani. Anche Clara si iscrive al partito, diventa ausiliaria e imbraccia il fucile.

Cos’è successo tra quelle mura domestiche, quale disgrazia si è portata via la piccola Virginia, che mamma Egle ha sepolto con l’elettroshock? E cos’ha visto, o vissuto, Clara nei giorni della Liberazione, quando la primavera si è spezzata, fuori e dentro di lei, e il buio ha cominciato a farsi strada nel cuore? La ritroviamo a Roma, al cinema accanto a Giuseppe, poi al suo braccio, avvolta nel mistero di un passato che neanche l’amore del marito riuscirà mai a dissipare. Infine in corsia, annientata in tutto dalle “terapie biologiche” fuorchè nella volontà di sparire.

Luciana Capretti ha cercato la storia di Clara tra giornali, archivi, ospedali. E ce l’ha restituita, nella sua granitica fragilità, anche senza un corpo.

@boria_A

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