Cinque poesie per la sorellina sparita nell’inferno di Auschwitz

Daniel Vogelmann è figlio di un sopravvissuto alla Shoah: «Mia sorella si chiamava Sissel, in yiddish vuol dire dolce»
TRIESTE.
Daniel Vogelmann è il fondatore e l'anima della casa Editrice Giuntina di Firenze, specializzata in titoli di argomento ebraico, ma è anche il protagonista di una storia personale particolare e complessa, quella di essere il figlio di un sopravvissuto alla tragedia della Shoah, il racconto della storia della sua famiglia è anche, in parte, quello degli ebrei europei nella bufera del '900.

Alla sorella mai conosciuta Vogelmann ha dedicato cinque struggenti liriche.


In queste delicatissime e bellissime poesie si legge anche la storia della sua famiglia che deve essere una storia particolare, da dove veniva suo padre?


«Mio padre Schulim Vogelmann era nato nella cittadina di Przemyslany nel lontano 1903 - spiega Daniel Vogelmann -. Per la verità, pare che sia “nato su un treno mentre la città bruciava”, come recitava la prima frase delle sue memorie, che purtroppo rimasero a questa prima frase quando nel 1974 il suo cuore malato si stancò di battere. Allora io avevo “soltanto” ventisei anni e anche per questo di mio padre so purtroppo molto poco. Przemyslany era nella Galizia orientale, non lontano da Tarnopol, non lontano da Leopoli, ossia Lemberg, ossia Lvov. Faceva ancora parte dell’impero austro-ungarico, come Trieste. Poi sarebbe diventata polacca, sovietica, ucraìna. Ma, prima di diventare sovietica, il 23 maggio 1943 era stata dichiarata judenrein: tutti i suoi seimila ebrei erano stati sterminati dai tedeschi. La famiglia di mio padre aveva comunque lasciato la Galizia già all’inizio della prima guerra mondiale, e si era stabilita a Vienna, la capitale dell’impero. Qui, per una banale (oggi) appendicite, era morta la nonna Sissel. Finita la guerra, mio zio Mordekhai era andato a completare i suoi studi rabbinici a Zurigo, mentre il nonno Nachum con la figlia Miriam erano tornati in Polonia. Mio padre Schulim, che aveva poco più di quindici anni e non mancava di coraggio, giocò invece la carta sionista e si imbarcò (probabilmente a Trieste) per la Palestina».


E Firenze quando appare ?
«Nel frattempo, un altro ebreo polacco, il rabbino capo di Firenze Shemuel Zvi Margulies, incontrò mio zio a un congresso sionistico in Svizzera e lo invitò a venire a Firenze per insegnare Talmud al Collegio Rabbinico. Fu quindi abbastanza naturale che anche mio padre, stanco dell’esperienza sionistica, approdasse poco tempo dopo nella città del giglio. Era il 1922, la città era bellissima e apparentemente tranquilla; c’erano soltanto degli esagitati vestiti di nero, ma chiaramente non avrebbero avuto futuro... Il problema, per mio padre, era quello di trovare un lavoro che gli permettesse di osservare il Sabato, cosa tutt’altro che facile a quei tempi. E qui entrò in scena il terzo ebreo polacco di questa storia familiare: il celebre libraio antiquario ed editore Leo Samuel Olschki, proprietario anche della Tipografia Giuntina. Olschki assunse il giovane correligionario come compositore a mano e poi, nel 1928, lo nominò direttore della tipografia. Dopo qualche anno mio padre sposò Anna Disegni, figlia del rabbino di Torino Dario Disegni, e nel 1935 la coppia festeggiò la nascita di una bella bambina: Sissel (che in yiddish vuol dire dolce). Mio padre, Anna e Sissel cercarono di fuggire in Svizzera, ma al confine furono arrestati dalla polizia fascista e poi spediti proprio in Polonia, ad Auschwitz. La mamma e la bambina furono subito eliminate nelle camere a gas, mio padre fu immesso nel campo e diventò il numero 173484».


E quindi solo suo padre sopravvisse ad Auschwitz...
«“Perché mi sono salvato io e non i miei cari, e non i sei milioni?”, si domandava spesso mio padre, roso da un ingiustificato senso di colpa, anche se sapeva che non c’era un perché. O meglio ce n’erano molti. Mio padre, quando fu internato, aveva quarant’anni, aveva un fisico robusto, conosceva bene lo yiddish e il tedesco e discretamente il polacco (aveva venduto una mezza razione di pane per una grammatica polacca), e soprattutto era un Facharbeiter, un operaio specializzato, un tipografo (sappiamo bene che fine facevano gli inutili intellettuali...). Ma la ragione fondamentale – lui lo sapeva bene – aveva un altro nome: una immensa fortuna, il destino...


E suo padre ritornato a Firenze riprese il suo vecchio lavoro?
«Poi mio padre tornò a Firenze, senza più moglie, senza più bambina, e trovò ad aspettarlo solo la fedele Tipografia Giuntina, a cui, anche per non pensare, si dedicò anima e corpo. Infine ne divenne proprietario, e trovò anche la forza di risposarsi, con Albana Mondolfi, vedova di Raffaello Passigli e madre di un bambino di otto anni, Guidobaldo. Loro si erano salvati nascosti in un convento. Nel 1948 nacqui io».


Cosa significa esser un figlio di un sopravvissuto allo sterminio?
«Della sua esperienza in campo mio padre parlava poco, forse anche per non turbarmi. Eppure qualcosa entrava silenziosamente in me: la paura del prossimo? il senso dell’assurdo? la gratuità del destino? Dal momento che a cose normali io non sarei dovuto nascere, che senso aveva la mia vita, che cosa dovevo fare per giustificarla e, soprattutto, che cosa dovevo fare per essere all’altezza di un tale padre? Ma non è questa la sede per parlare delle grandi difficoltà che incontrai per trovare la mia strada: la vita di un figlio di un sopravvissuto ai campi della morte, di un cosiddetto figlio della Shoà, non è mai facile. A vent’anni avrei voluto diventare uno scrittore, ma riuscii soltanto a pubblicare qualche volumetto di poesie. Poi entrai anch’io nella tipografia ma non riuscivo ad ambientarmi: il mestiere di tipografo, pur nobilissimo, non era fatto per me. Confesso che mi sentivo piuttosto disperato, ma, miracolosamente, proprio quella mia disperazione mi aiutò a trovare un compromesso: se non riuscivo a fare lo scrittore, se non potevo fare il tipografo, avrei fatto l’editore. E così, con l’aiuto di mio fratello e di mia moglie Vanna, fondai nel 1980 l’Editrice La Giuntina (oggi Casa Editrice Giuntina), specializzandomi subito in opere di argomento ebraico».


Come nacque la decisione di pubblicare ”La notte” di Wiesel?
«Quando, all’inizio del 1980, avevo ancora idee molto vaghe e tremebonde sulla possibilità di diventare un editore, ancorché piccolissimo, entrai in una libreria di Firenze e in uno scaffale di occasioni trovai ad attendermi ”La notte” di Elie Wiesel, anzi ”La nuit”, visto che si trattava dell’originale francese (del 1958). Avevo già sentito nominare Elie Wiesel, allora sconosciuto in Italia, ma per anni avevo evitato di leggere libri sulla Shoà per paura di soffrire troppo. Comprai il libro, andai a casa e mi misi subito a tradurlo (aiutandomi con il dizionario perché non avevo mai studiato il francese). Dopo poche pagine, mi sembrò di trovarmi di fronte a un capolavoro, a una delle più strazianti testimonianze sull’inferno dei campi di sterminio. Allora mi dissi: “Be’, questo potrebbe essere il primo libro dell’Editrice La Giuntina, il primo libro della collana ‘Schulim Vogelmann’”, dedicata appunto alla memoria di mio padre. E così fu».

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