Chinatown a Trieste, i negozi raggiungono quota 200

Nell’area del centro che va da via Ghega a via Mazzini, i cinesi hanno creato un villaggio parallelo che lavora almeno 12 ore al giorno, sette giorni su sette, e che ormai propone merci e servizi di ogni tipo
TRIESTE
Una sorta di città nella città. Nell’area del centro che da via Ghega si estende fino a via Mazzini, i cinesi hanno creato un villaggio parallelo, una Chinatown che lavora almeno 12 ore al giorno, sette giorni su sette, e che ormai propone merci e servizi di ogni tipo: alimentari, abbigliamento e pelletterie, bar e ristorazione, arredamento e biancheria per la casa, piccoli elettrodomestici e - da una settimana - anche il parrucchiere. Tutto è iniziato con i ristoranti cinesi. Era il 1982 quando in via degli Artisti aprì i battenti "Shanghai", un piccolo locale dove per la prima volta i triestini poterono assaporare piatti allora inediti per questa zona: gli involtini primavera, il maiale in agrodolce, il riso alla cantonese... E come accade oggi per i ristoranti giapponesi, sedersi a quei tavolini tentando di prendere dimestichezza con i bastoncini al posto di forchette e coltelli era diventata una moda.


Nel 2004 le imprese cinesi registrate alla Camera di Commercio di Trieste e impegnate nel settore della ristorazione o dell'abbigliamento erano 16. Oggi sono oltre 200. Le uniche attività che i cinesi non aprono nel Borgo Teresiano, ma che invece dislocano capillarmente in zone più o meno periferiche, sono proprio i ristoranti. «È perché non ne usufruiamo - precisa Ikue Xu, moglie del proprietario di un negozio di pelletterie - quando mai avete viso una famiglia cinese mangiare al tavolo di un ristorante cinese? Quella proposta in questi locali per noi è una cucina troppo elaborata, è stata adattata ai gusti degli italiani».


Ormai, passeggiando in quel fazzoletto di città conquistato anno dopo anno da uomini e donne dagli occhi a mandorla, ci sente un po' stranieri a casa propria. Le lanterne rosse, dopo l'ordinanza comunale che le ha vietate, non ci sono più: così in parecchi casi i negozi non hanno insegne né una denominazione, ma l'inconfondibile stile cinese si respira ovunque. Via Trento, via della Geppa, via Ghega, via Filzi, via Roma e via Machiavelli sono le strade più popolate da imprese cinesi che, nell’80 per cento dei casi, si dedicano alla rivendita di capi di abbigliamento importati quasi esclusivamente dalla Cina. Ma oggi, grazie alla vasta proposta della merce, i cinesi sono in grado di soddisfare qualsiasi esigenza: nei loro esercizi ci si può vestire, si possono trovare anche arredi, alimentari, componenti elettronici, giocattoli e perfino abiti da sposa.


Aprono le rivendite alle 8 del mattino: a fine giornata poi, dopo aver abbassato le serrande, spariscono tra le viuzze del Borgo Teresiano. Nessuno li vede più, scompaiono. Non si rivolgono facilmente ai nostri istituti di credito. Non hanno mai presentato una richiesta per l'assegnazione di una casa dell'Ater, preferiscono rivolgere domanda di contributo integrativo per i canoni di locazione al Comune. Secondo l'Istat i cinesi residenti a Trieste sono un migliaio, ma la situazione fotografata lo scorso anno dalla Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) evidenzia un tasso di irregolarità del 57,8 per cento, superando di gran lunga quello registrato nelle altre città italiane, che è pari al 28 per cento. In parole povere, oltre la metà dei cinesi che vediamo girare per città non ha il permesso di soggiorno.


La maggior parte dei cittadini della Repubblica popolare cinese presenti in città proviene dalla provincia dello Zhejlang, nella Cina meridionale. Negli ultimi anni diverse coppie hanno messo al mondo e allevato a Trieste i loro bambini usufruendo delle strutture pubbliche - in questo caso si tratta di immigrati ”regolari” - e incentivando l'integrazione. Ma sono ancora diversi i genitori che lasciano i bambini in Cina, dai nonni, e li fanno vivere con le cifre che riescono a spedire a casa.

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