Caso Regeni, chiesto il processo per quattro 007 dei servizi egiziani

ROMA Si fa più vicino il processo per i quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni. Malgrado i depistaggi, le chiusure e da ultimo il netto respingimento dei risultati dell’inchiesta da parte dei magistrati egiziani, la Procura di Roma tira dritto e a 40 giorni dalla chiusura delle indagini ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio per il generale Tariq Sabir, per Athar Kamel Mohamed Ibrahim, per Uhsam Helmi, per Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Le accuse mosse dal procuratore Michele Prestipino e dal sostituto Sergio Colaiocco variano dal sequestro di persona pluriaggravato al concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. L’ufficio giudiziario di piazzale Clodio afferma in una nota che «non essendo intervenuto alcun fatto nuovo dopo la notifica della conclusione delle indagini», il 10 dicembre, si è proceduto a depositare all'ufficio del Giudice per le udienze preliminari la richiesta di processo per i quattro.
L’obiettivo dei magistrati capitolini è portare a giudizio le persone che prelevarono il ricercatore di Fiumicello il 25 gennaio del 2016 e lo trasferirono in una villetta al Cairo dove per giorni fu torturato e poi ucciso. L'udienza preliminare potrebbe essere fissata entro fine primavera. Ma si aprirà la questione dell'assenza dell'elezione di domicilio per gli imputati. Il giudice per le udienze preliminari dovrà affrontare questo nodo cruciale già oggetto della rogatoria avanzata dalla Procura nel 2019, più volte sottolineata negli incontri con gli egiziani ma rimasta lettera morta: i magistrati hanno chiesto invano gli estremi per l’elezione del domicilio al quale inviare gli atti. E nel nostro sistema giudiziario rinviare a giudizio è impossibile se non c'è la certezza dell'avvenuta notifica ai 4 al Cairo, difesi da legali d'ufficio che non hanno inviato segnali ai pm. Il gup potrebbe procedere ugualmente valutando come decisiva la rilevanza mediatica che anche in Egitto ha avuto l’indagine e la diffusione dei nomi. Sentito in dicembre in Commissione parlamentare, Prestipino aveva ribadito la forza dell'impianto accusatorio raccolto. Nell'atto di conclusione indagini viene ricostruita la vicenda. Tutto parte «dalla denuncia presentata, negli uffici della National security, da Said Mohamed Abdallah, rappresentante del sindacato indipendente dei venditori ambulanti del Cairo Ovest». I 4 indagati «dopo aver osservato e controllato» «dall'autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Regeni, abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani, lo bloccavano all'interno della metropolitana del Cairo». Il ricercatore fu condotto «prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly», nella stanza 13, dove venne «privato della libertà personale per nove giorni» e sottoposto a torture.
Intanto, ascoltato ieri dalla commissione parlamentare d’inchiesta, Davide Bonvicini, primo segretario presso l'ambasciata d'Italia al Cairo all'epoca dei fatti, ha spiegato che nonostante il «fortissimo impegno profuso» ci fu un muro di «reticenza ed evasività» delle autorità egiziane in quei giorni, a partire da quel 25 gennaio di cui lunedì ricorrerà il quinto anniversario. Proprio per lunedì intanto il collettivo “Giuliosiamonoi” - in accordo con la famiglia Regeni - ha invitato a fare un post su Facebook o Twitter chiedendo «verità e giustizia per Giulio», «il richiamo dell’ambasciatore» e «stop accordi con chi tortura». Giorni fa la Procura di Roma ha incardinato l’esposto-denuncia presentato dai genitori di Regeni e in cui si ipotizza la violazione da parte del Governo della legge 185 del 1990 in tema di vendita di armi ai Paesi esteri. L’esposto fa riferimento alla vendita alle autorità del Cairo di due fregate Fremm del valore di 1,2 miliardi di euro. Secondo i Regeni il governo italiano avrebbe violato quanto previsto all’articolo 1 della legge e in particolare il divieto di «esportazione e il transito di materiali di armamento verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti».—
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