Carso triestino, i sapori senza tempo e il piacere di ritrovarsi: a Pasqua trionfa il rito delle osmize

Da Contovello a Malchina entra nel vivo la stagione delle “frasche” tra taglieri, “ovi duri” e vino

Francesco Codagnone
Brindisi in osmiza (Foto Massimo Silvano)
Brindisi in osmiza (Foto Massimo Silvano)

TRIESTE. La tavola è imbandita, colorata, incasinata ma guai a dire zozza: molliche di pane, macchie di vino, prosciutto e lardo, formaggio e miele, ciuffi d’insalata. La signora Giovanna siede a capotavola, le guance arrossate per un “bicer” di troppo: le sue risate si perdono tra quelle dei figli, dei cognati, dei nipoti. É una famiglia numerosa, di tutte le età, da tutto il mondo: le sue radici, cognome Feneberger, affondano nell’Austria, ma poi s’intrecciano e si perdono tra Aquileia, Destra Tagliamento, Milano, Trieste e chissà dove. Si contano tre generazioni, tra taglieri e bicchieri: una riunione di famiglia in occasione della Pasqua, un pranzo assieme nel giardino dell’osmiza “Sardo David” a Samatorza. Ridono, cantano, alzano la voce complici i calici: al tavolo vicino una comitiva di amici, un po’ triestini, un po’ friulani, un po’ californiani.

Se si dovesse spiegare a un turista cosa siano le osmize, si potrebbe partire da qui: una sola “z”, una famiglia riunita, una tavola piena, la pancia pure. In modo sommario, un ambiente rustico, dove gustare i prodotti del luogo accompagnati da un bicchiere e seduti su panche di legno.

Incantevoli rimembranze di cascina toscana o terrazze a strapiombo sul Golfo: basta, in realtà, anche solo il garage di una casetta privata, nascosta nel Carso. Le tradizioni sono regole, i prezzi popolari, l’etichetta intuitiva. I rapporti sono semplici, tra tavolate comuni in cui si schiamazza in sloveno e una fisarmonica in sottofondo.

Il menù è scritto sulla lavagna, infallibile, più o meno sempre lo stesso: taglieri di salumi, formaggi, “ovi duri”, verdure sott’olio, vino spillato dalla botte. Poi, in realtà, le parole non bastano, e servono forse due o tre bicchieri per sciogliere la lingua e spiegare cos’è, davvero, l’osmiza: espressione dell’unico modo di vivere, sintesi di tutti i luoghi comuni che accompagnano i triestini.

L’osmiza è goliardia, è generosità, è identità, è Giovanna e la famiglia che si ritrovano a tavola per il giorno di festa. L’osmiza è un pellegrinaggio, un qualcosa di mistico. In un itinerario ideale, uscendo da Trieste lungo strada di Fiume, si entra prima o poi a San Giuseppe della Chiusa. Qui le osmize sono due o tre, l’unico modo per distinguerle è seguire i cartelli improvvisati che ne segnalano l’apertura.

Una delle più famose è quella di “Žerjal Erik”, più spesso conosciuta con il nome di papà Jadran. Paura dell’etilometro, saranno forse scomparsi i grandi bevitori di una volta: qui il vino, però, fa cantare ancora. Il nerissimo Terrano, aspro, intenso e deciso, oppure la bianca Vitovska, leggera e profumata, con sentori di mandorla. E poi l’aromatica Glera, dall’inconfondibile giallo intenso: le sue barbatelle, esportate da un sacerdote, hanno fatto la fortuna di Valdobbiadene.

Fatto l’ultimo brindisi si va lungo il crinale carsico, iperpanoramico: passati Trebiciano, Padriciano e Opicina, si arriva a Prosecco. Se ci si addentra nel centro della frazione, si scova infine una stradina che porta a Contovello: si sente un chiacchiericcio a bocche piene e bicchieri vuoti. É l’osmiza “Stoka”, rifugio di pace all’ombra d’una pergola: qui la vista e la ragione si perdono sull’orizzonte, e quando la giornata è limpida si può vedere la costa croata fino a Punta Salvore. La signora Elviana cura con attenzione i dettagli, dai piatti di legno decorati a mano alle barchette di bambù nelle quali servire le olive e le verdure dell’orto. In primavera, nei piatti compare anche il finocchietto selvatico, qualche fogliolina a profumare i formaggi carsolini.

Nelle sere più calde, s’affaccia un vecchio cantastorie del paese, che racconta di artigiani, palombari e partigiani. Riprendendo la via, presto si arriva a Samatorza, dove vien quasi da dire che ogni casa ospiti un’osmiza. Eravamo partiti da qui, da “Sardo David”: alle spalle vent’anni di attività ma in realtà una storia secolare. In cucina e in sala si alternano David, la moglie e le figlie: servono a tavola taglieri di prosciutto, ombolo, ossocollo, salame e pancetta, tutti realizzati dai suini allevati da loro. Si riparte, si va verso la costa, ma prima si passa per la minuscola Malchina: si scorge appena, immersa negli alberi, l’osmiza “Pipan Klaric”.

É lì da una decina d’anni, nata per scherzo: papà Pipan era tipografo, il figlio Leandro studiava ancora, per entrambi c’era voglia di natura. Il giardino è immenso, il menù casalingo, freddo come da dogma, ma non manca qualche piatto caldo in deroga ai dettami primordiali: salsiccia in crosta di pane, strudel salato, a fine pasto le dolci palacinke.

I tavoli son pieni, prenotati già da settimane in vista dei giorni festivi: a Pipan fa ancora strano che oggi si faccia così. Un tempo ci si presentava in due o tre amici, senza avvisare: si trovava un angolino su una panca, e iniziava la festa.

Si salta di nuovo in macchina: alla fine di questo tour bucolico, in lontananza s’intravede già la linea di costa, la baia di Sistiana e le falesie di Duino. É terra di pesce e di fritti indimenticabili, ma questa è già un’altra storia.

Riproduzione riservata © Il Piccolo