Carlo Lizzani a Maremetraggio
«Mi sono servito del cinema per conoscere il paese e la sua storia. Non ho girato film per accontentare il pubblico, ma perché ero curioso dell’Italia». Così Carlo Lizzani, regista, intellettuale, storico cinematografico, racconta il suo rapporto con la macchina da presa, strumento di scoperta che l’ha portato a esplorare I generi girando capisaldi del cinema storico e d’inchiesta come “Achtung! Banditi!”, “Mussolini: Ultimo atto”, “La vita agra”. Adesso, a 91 anni, è pronto a tornare sul set per girare “L’orecchio del potere”, il suo prossimo film tratto dal romanzo “Operazione via Appia” di Giulio Andreotti, che racconta di intercettazioni al tempo del fascismo e ha opzionato nel cast nientemeno che Al Pacino.
Prima però Lizzani ha un altro appuntamento, quello col Festival Maremetraggio di Trieste che gli dedicherà una serata speciale il 3 luglio, dalle 20 al Teatro Miela. L’omaggio s’inserisce in quello più allargato (già iniziato dal Trieste Film Festival e destinato a proseguire a settembre col festival I Milleocchi) dedicato all’attrice triestina Laura Solari nel centenario della sua nascita. La Solari comparve in un ruolo breve ma intenso nello straordinario film-dossier “Banditi a Milano” che Lizzani girò nel 1968 per raccontare, quasi in presa diretta, le gesta criminali della famigerata banda Cavallero: lo stile “live” adottato dal regista rivoluzionò le consuetudini del linguaggio cinematografico di allora inaugurando di fatto il genere del poliziottesco.
Il film verrà riproposto al festival: se le fragilità legate all’età avanzata glielo permetteranno, Lizzani sarà presente di persona. La sua voce arriverà comunque da una videontervista e dal documentario “Viaggio in corso nel cinema di Carlo Lizzani”, biografia privata e artistica firmata da Francesca Del Sette.
Lizzani, lei è nato nel 1922 come Callisto Cosulich e Francesco Rosi: fa parte di una generazione che il grande cinema italiano l’ha vissuto sulla propria pelle, con le istanze politiche che il grande schermo ospitava soprattutto dagli anni ’40 ai ‘70. Anche oggi, con “L’orecchio del potere”, sta per occuparsi di un tema particolarmente caldo, le intercettazioni, ma scavando nel passato…
«Mi piace l’idea di raccontare che le intercettazioni non sono un’invenzione di oggi ma fanno parte della storia, e che negli anni Quaranta lo stesso Mussolini aveva spiato nemici e collaboratori. La costante è che gli intercettatori finiscono sempre per avere un potere maggiore dei personaggi che intercettano. Inizieremo le riprese entro il 2013 ma stiamo aspettando le date in cui sarà libero Al Pacino».
“Banditi a Milano” fu girato appena quaranta giorni dopo la sparatoria in strada con cui la banda Cavallero tentò di sfuggire alla polizia, uccidendo tre innocenti: perché scelse di raccontare questo terribile episodio?
«Quei fatti, com’è accaduto in altri film di cronaca che ho girato, si prestavano a diventare metafora del tempo in cui si viveva. il ’68. Il boom economico fu un balzo notevole per la società italiana e provocò molte contraddizioni. Lo girai quasi in presa diretta, in parte utilizzando la forma dell’inchiesta televisiva. Realizzare il film in così breve tempo fu possible solo grazie alla dinamicità di Dino De Laurentiis che ebbe il coraggio di puntare su di me. Allora, se credevano in un progetto, produttori come De Laurentiis, Ponti, Cristaldi lo avviavano senza aspettare l’accordo con le distribuzioni o con la Rai».
Si ricorda come scelse Laura Solari per il ruolo della madre di Tuccio, il minorenne della banda?
«Me la proposero. Allora il casting era una professione meno popolare di oggi in Italia. Laura non era più molto conosciuta all’epoca, ma l’ho trovata giusta per la parte».
Anche oggi alcuni film, come “Diaz” o “Acab”, cercano di indagare la realtà del Paese. Secondo lei esiste ancora il cinema civile in Italia?
«Le condizioni produttive sono molto diverse da quando lo facevamo noi. Oggi è difficile che nasca una vera e propria corrente, ci sono progetti singoli intrapresi da bravi registi che hanno ancora la forza del cinema civile degli anni ’60 e ’70, ma sono voci nel deserto».
Sembra che tutto il cinema italiano abbia perso sul piano internazionale la forza e l’identità che aveva allora. Perché?
«Non esiste più un movimento che accomuna una serie di autori, come poteva essere la Novelle Vague o il Nuovo Cinema Tedesco. L’eco di una cinematografia si propaga quando tre-quattro registi, pur agendo individualmente, vanno nella stessa direzione».
Com’è accaduto per esempio col Neorealismo. Lo racconta anche nel suo ultimo docu-film “Non eravamo solo... ladri di biciclette”, scritto da lei e diretto da Gianni Bozzacchi, che potrebbe entrare nel programma della Mostra di Venezia. In quegli anni sentivate di essere un gruppo stilisticamente compatto, oppure no?
«Sì, sentivamo l’idea di essere accomunati in un movimento che stava cambiando il linguaggio del cinema. L’eredità del Neorealismo è stata proprio una nuova libertà di sintassi che ha permesso ad autori diversi, come anche Fellini, di muoversi con più scioltezza nella realtà».
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