Caporetto, il luogo simbolo di una disfatta

È Alessandro Barbero il protagonista della sesta lezione di Storia della rassegna “Guerra 1914-18”. Appuntamento alle 11, al Verdi. L’autore sarà presentato da Pietro Spirito. Ecco una sintesi del suo intervento. DIRETTA STREAMING SU WWW.ILPICCOLO.IT
Caporetto è una sconfitta così memorabile che il nome stesso di quel paesino sloveno è diventato sinonimo di disfatta, e di disfatta vergognosa: basta sfogliare i nostri giornali per trovare continui riferimenti alla caporetto dell'economia, alla caporetto delle ferrovie, alla caporetto del PD, sempre scritto così, con la "c" minuscola.
E, in verità, la catastrofe fu colossale: non tanto per i 40.000 morti e feriti, che sono meno di quelli che perdevamo in una qualsiasi "spallata" di Cadorna sull'Isonzo, quanto per i 260.000 prigionieri, molti dei quali moriranno di fame, di tifo e di Grippe nei lager, i 350.000 sbandati, il mezzo milione di profughi dal Friuli e dal Veneto invasi.
Fu colossale per la profondità della penetrazione nemica: 150 chilometri dall'Isonzo al Piave - per capire le proporzioni, la battaglia della Bainsizza, che appena due mesi prima era stata salutata come una grande vittoria italiana, aveva comportato un'avanzata massima di otto chilometri. Udine, sede del comando supremo, distava cinquanta chilometri dal fronte ed era considerata una tranquilla retrovia, dove eleganti imboscati popolavano i caffé: i tedeschi ci entrarono già il quinto giorno dopo l'inizio dell'offensiva.
Gli studi degli ultimi anni hanno fatto giustizia della leggenda che il comando cercò di accreditare fin dai primi giorni: che, cioè, il nemico aveva sfondato perchè i soldati non si battevano, perchè la Seconda Armata minata dalla propaganda socialista aveva vigliaccamente gettato le armi e tradito il paese. L'enorme lavoro di Paolo Gaspari sui rapporti degli ufficiali fatti prigionieri a Caporetto, migliaia di memoriali compilati al ritorno dalla prigionia e conservati all'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore, ha dimostrato che le truppe in prima linea combatterono dappertutto, e quasi sempre bene. Il vero tradimento è semmai nel tentativo di Cadorna - che pure era considerato da tutti, amici e nemici, un uomo di grandissime capacità - di scaricare sui soldati la responsabilità del disastro, col rovinoso bollettino in cui denunciava "la mancata resistenza di reparti della Seconda Armata vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico".
Il governo si accorse della follia di quel bollettino e ne bloccò la pubblicazione; ma troppo tardi, perchè le copie per l'estero erano già partite. Così, Caporetto è ancor oggi nel mondo, per tutti quelli che si interessano di storia militare, quel posto dove gli italiani sono scappati.
Ma il fatto di sapere, oggi, che quei fanti della Caltanissetta e dell'Alessandria, della Genova e dell'Etna, non erano scappati non deve diventare un'assoluzione, perché la storia di Caporetto rivela comunque debolezze mai risolte del nostro paese e della nostra classe dirigente. Fino a quel momento l'Italia aveva compiuto uno sforzo organizzativo, industriale e umano sbalorditivo per un paese così debole, e stava tenendo l'esercito austro-ungarico sotto una tale pressione che tutti, ai vertici dello stato e dell'esercito, vedevano la vittoria a portata di mano. Ma la verità è che i due eserciti che si affrontavano sull'Isonzo e nel Trentino erano il prodotto di due società a metà del guado, con punte di modernità e vaste sacche di arretratezza. Le fabbriche di Vienna o di Praga, come quelle di Torino o di Milano, con le loro grandi concentrazioni operaie, convivevano con l'immensa arretratezza contadina della Galizia e dell'Ungheria, con l'Italia della mezzadria e del latifondo.
L'esercito italiano e l'esercito austro-ungarico erano degni l'uno dell'altro per il valore degli uomini, per la mediocrità degli armamenti, per l'inefficienza delle burocrazie e per la rigidità dei comandi. Ma l'esercito tedesco era il prodotto della società industriale più moderna d'Europa e giocava in un altro campionato. Quando i fitti colloqui fra la città termale di Baden presso Vienna, dove risiedeva il comando supremo austriaco, e la città termale di Kreuznach presso il Reno, sede del comando supremo tedesco, si conclusero ai primi di settembre 1917 con la decisione di trasferire in Italia sette divisioni tedesche, la battaglia di Caporetto era già perduta per metà.
Eppure, il comando italiano sapeva tutto! Già alla metà di ottobre i corrispondenti di guerra dei grandi quotidiani furono convocati a Udine presso il comando di Cadorna; lì, dopo aver promesso di mantenere il più rigoroso segreto, appresero che stava per scatenarsi una poderosa offensiva nemica, col concorso di truppe tedesche, e che il comando supremo, essendo così ben informato, aveva adottato per tempo "imponenti" misure difensive.
Grazie al lavoro dei servizi segreti e all'incessante afflusso di disertori, gli italiani conoscevano esattamente la data e le direttrici dell'attacco, nonché lo schieramento delle forze nemiche. Ovunque, di conseguenza, regnava il più beato ottimismo. Ardengo Soffici, in visita dal comandante della Seconda Armata, Capello, gli sentì dire che non c'era da aver paura, perchè i tedeschi non erano affatto più temibili degli austriaci: «Vuol dire che prenderò anche dei tedeschi per la mia collezione di prigionieri». Badoglio, comandante del XXVII Corpo, arringò così i suoi soldati: «Ragazzi, niente paura! Gliele daremo secche. Ho tanti cannoni da fracassarli».
Il 22 ottobre, Cadorna parlando col generale Cavaciocchi, comandante di quel IV corpo che di lì a due giorni sarebbe stato annientato fra Plezzo e Tolmino, dichiarò: «Vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!».
Non ci fu, dunque, nessuna sorpresa a Caporetto; e del resto, scherzando ma non troppo si potrebbe dire che l'offensiva nemica in quel settore era prevista fin dal secolo precedente. La geografia era lì da sempre a mostrare che chi riusciva a passare l'Isonzo in quel punto poteva imboccare la valle Judrio e la val Natisone, e arrivare in un lampo alla pianura friulana: nel 1859, in un articolo scritto alla vigilia della Seconda Guerra d'Indipendenza, nientemeno che Friedrich Engels aveva osservato che un esercito italiano operante sull'Isonzo poteva essere facilmente preso alle spalle passando da Caporetto e puntando su Cividale.
Addirittura il 24 ottobre, mentre già scattava l'offensiva nemica, Cadorna lo ricordò agli ufficiali del suo stato maggiore, parlandone come di un'ovvia ipotesi scolastica: «Strategicamente - disse - potrebbe convenire, magari, la direzione delle testate delle valli dal Natisone all'Judrio: in ogni manovra di pace, si è sempre supposto che lo sfondamento di ipotetiche linee italiane alla frontiera dovrebbe avvenire su questo tratto». Magari: ma Cadorna era convinto di aver schierato lì truppe a sufficienza per impedirlo. I fatti avrebbero dimostrato che si sbagliava.
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